Daimòn di Massimiliano Larocca: recensione

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Massimiliano Larocca è un cantautore italiano, giunto al suo settimo album: è intitolato Daimòn, ed è uscito per Santeria in ottobre 2023.

Come si può definire il successo? Tramite quali parametri si può misurare? È tangibile? È misurabile, come la luce lo è in candele? Cos’è, dunque, questo maledetto successo?

Qual è la chiave per raggiungerlo? In che modo arte e successo si sposano, se lo fanno? In cosa consiste tale unione?

Massimiliano Larocca non è mai stato un cantautore di successo – per come questo misterioso concetto viene comunemente definito. Non ha mai raggiunto le vette delle classifiche di vendita; non ha mai avuto un tour negli stadi. Eppure, Massimiliano Larocca ha sempre ricevuto il plauso della critica specializzata, nonché dei colleghi cantautori: Nada, musa dell’indie còlto italiano, il compianto Andrea Parodi, nonché Erriquez della Bandabardò – solo alcuni fra i tanti. Musica colta, peraltro, quella di Larocca, che coniuga strettamente letteratura e musica, in un ibrido dai toni spesso intimisti, ma altrettanto universali, come in Exit|Enfer e nella messa in musica dei lavori di Dino Campana – un altro che, inspiegabilmente, di successo mainstream non ha mai goduto in vita ed è misconosciuto, sui programmi scolastici, anche nella morte.

Alle mie orecchie un po’ viziate dall’ascolto eccessivo di musica spesso buona, ma altrettanto spesso estremamente brutta, il perché dell’assenza del successo di massima da parte di Massimiliano Larocca appare ancor più incomprensibile. L’ultimo lavoro del cantautore fiorentino, intitolato Daimòn e uscito in ottobre 2023, è stato prodotto da Hugo Race (come il precedente Exit|Enfer), australiano che, fra i molti, ha lavorato con Nick Cave ma ha sviluppato, in tarda età, una certa affezione per il nostro paese. Tant’è che nel 2022 ha pubblicato un album per Santeria, dall’autoesplicativo titolo di onceuponatimeinitaly. La voce di Larocca, scura e sensuale, va ad inserirsi nel grande solco tracciato da Paolo Conte in terra nostrana, e da Leonard Cohen nel resto del mondo: più giovane e moderno, però, Larocca sa lasciare spazio espressivo anche agli strumenti che ne circondano la linea vocale, che in Daimòn – grazie anche alla produzione di Hugo Race e all’ingegneria del suono di Nicola Baronti – hanno un ruolo di primissimo piano.

Daimòn di Massimiliano Larocca: recensione 1
Cover di Enrico Pantani

L’attitudine lirica/empirea di Larocca si ben fonde con l’a tratti lugubre tendenza produttrice di Race: Daimòn, sebbene album profondamente europeo per l’ampio utilizzo di italiano e francese, tocca spesso e di certo non cela una certa influenza Nick Caveana – ma la voce di Larocca è molto più sensuale, calda, sebbene ugualmente roca e recitativa. Il Daimòn, nell’Odissea prima e nella filosofia platonica poi, è la forza vitale d’origine divina presente in ognuno di noi – ben distante dall’accezione cristiano-giudaica maligna della parola “demone”. E nel caso specifico, esso è il banale ma non banale collante fra idee sparse provenienti da un uomo che, seppur adulto, è ancora alla ricerca di qualcosa; il daimòn, collante, è esso stesso fonte di divisione ed unione, è inizio del viaggio e meta di esso. È al di fuori di noi ma è dentro di noi: è, però, esso, tangibile? Quanto pericoloso è farne un’intima conoscenza? Similmente al fireworker dei norvegesi Gazpacho, il daimòn di Larocca è un leviatano, un mostro indomabile e inconoscibile che spariglia le carte pur nascondendosi sempre nell’ombra. Il manifesto espressivo di Daimòn è Non Saremo Più gli Stessi, ermetico timore di un’eugenetica della memoria: Un Mondo Nuovo fatto di dimenticanza e di passati obliati da qualche entità maligna – e gli archi di Erma Pia Castrota e Alice Chiari aggiungono dinamismo e classe al mesto blues del brano. La scelta del brano successivo – la placida franco/italica Le Banlieu – potrebbe apparire azzardata, ma si liricamente si inserisce nell’eterna ricerca di completezza dal daimòn – e nelle parti recitate da Larocca l’eccezionale supporto tastieristico da parte di Franco Naddei e Race. Sprazzi di Lanegan si odono in Fatale, brano in inglese e musicalmente il migliore di Daimòn: un sentito duetto in una lounge oscura fra Larocca e la splendida Federica Ottombrino.

Daimòn di Massimiliano Larocca: recensione 2
Seconda cover di Daimòn.

Alcione, una delle più brillanti fra le Pleiadi, ammasso di supergiganti blu che bruciano a miliardi di miliardi di chilometri di distanza, è anche oggetto di una raccolta di odi di D’Annunzio: lei, una delle sette sorelle, aveva il compito di guidare i pescatori e di dirigere i venti in suo favore. Complesse intelaiature di chitarre ed archi sorreggono la lirica pan-acquorea, in accordi maggiori, di Larocca e della Ottombrino – peraltro, scritta in un sorprendentemente piacevole italiano, ricco di allitterazioni e assonanze interne; Alcione diviene flusso nel ciclo dell’acqua, che è esso stesso speranza e rinnovamento. Come ho già anticipato, però, il brano centrale di Daimòn rimane Leviatano: altra figura della mitologia antica, stavolta, però, medio-orientale e non greca, che è fonte di caos – caos inconoscibile e spaventoso. L’ottima produzione di Race descrive un’inquietante – e volutamente lugubre, a tratti – immagine simil-virale di un Leviatano minuscolo e ineluttabile, che viene da terre esotiche ed è pronto a reclamare ciò che crede gli appartiene – il cui finale psichedelico guida all’intro in synth parsoniani di The Love of the Senses. Brano quasi prog per costruzione e per l’utilizzo di alcune ben note tipologie di progressioni di frasi musicali; quasi gioioso ed estatico, la voce sussurrante di Larocca ben descrive la sinestesia nebbiosa fra il lasciarsi andare e la volontà di restare cosciente.

Daimòn di Massimiliano Larocca: recensione 3
Terza cover di Daimòn.

La successiva L’Abbandono torna sui binari tracciati da Le Banlieu e si concede di deragliare verso binari di più facile comprensione: l’ansia da abbandono verso la persona amata, di cui si cerca di imprimere ogni dettaglio nella memoria; la capacità malefica di auto-sabotare la propria felicità, dispersa come particelle quantiche nell’aria inquinata. L’abbandono che diviene luogo fisico, limbo grigio per chi non vuole accogliere emozioni considerate, evidentemente, devastanti. Ugualmente intimista è L’Ora Invisibile, malinconica ballad grunge italico/metropolitana – Afterhours? – e raggiunge la densità espressiva di brani come Un Brivido a Notte di Gazzè o It’s Five O’ Clock di Battiato (sebbene l’originale di Demis Roussos sia insuperabile): un notturno carico di bellezza umida di rugiada di città. In chiusura, la piacevolissima Cul De Sac è un altro notturno, stavolta electro pop, ambientato in un cul-de-sac di periferia: un piccolo mondo in cui il daimòn si ritrova confinato – l’inferno non è altro che un mucchio di casette di una lottizzazione mai condonata, in un paesino della provincia. Lo sprawl degli Arcade Fire. Un posto già morto, abitato da Tiresia, profeta dimenticato. Un finale evocativo, ma privo di speranza e, anzi, vagamente sardonico nelle sue sferzate.

Daimòn inserisce dunque Larocca all’interno di una lunga lista di artisti italiani d’eccezionale talento e, soprattutto, d’ambizione: da Francesco Forni e Ilaria Graziano, passando per Patrizia Laquidara e Brunella Selo, Moltheni e molti altri; il respiro internazionale di Daimòn rende l’album una piccola, grande gemma non grezza, bensì ben intagliata da mano ispirata.

Un lavoro da ascoltare e riascoltare, e un artista da scoprire. Indipendentemente dal successo e dalle noiose, flaccide, mortuarie classifiche.

Giulia Della Pelle
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