We, Arcade Fire: recensione

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We è il nuovo album dei leggendari Arcade Fire, il sesto, rilasciato il 6 maggio 2022 per Columbia Records e anticipato di singoli The Lightining e Unconditional II.

Abbiamo imparato, in Italia, ad amare gli Arcade Fire, per quasi esclusivamente un brano: Rebellion (Lies) che è sigla di un popolare talk show. Un brano uscito in un’epoca in cui il mondo era diverso: era il 2004, l’epoca degli attentati di matrice musulmana era appena cominciata, il ricordo dell’11 Settembre ancora freschissimo, mentre in Europa quello alla metropolitana di Madrid riempiva i giornali.

Gli Arcade Fire, dal Canada, guardavano il tutto da lontano. Più vicini agli USA, verso i quali non hanno mai avuto parole di laude, scegliendo di vivere in una delle città più europee d’America, New Orleans. I due vocalist e anime della band sono, infatti, marito e moglie: Win Butler e Regine Chassagne. La storia degli Arcade Fire è la stessa, in un certo senso, di tante altre band indie/art rock oriented d’oltreoceano, come i Big Thief, i Kings of Leon, o i conterranei Godspeed you! Black Emperor: musicisti professionisti, provenienti da accademie blasonate, che grazie alla propria inventiva e cultura, scelgono volontariamente di non incasellarsi in un genere ma di creare musica fine a se stessa – le complesse armonizzazioni e le sperimentazioni sono sì al servizio del grande pubblico, ma anche creazione artistica stessa in senso stretto, pre-Warhol, pre-pop, di cui però abbraccia l’esigenza di trasformare il fare arte in un lavoro.

La contemporaneità è stata dunque sempre profondamente presente nella produzione degli Arcade Fire: ne è esempio anche We, uscito il 6 maggio 2022. Precedente episodio della saga è stato Everything Now, che ai più non ha scaldato il cuore (compresa la sottoscritta), per l’insistenza, quasi caricaturale, nelle sonorità già sperimentate in The Neon Bible. Un lento barcollare, incerto, fra colorati percorsi sonori, insicuro quale seguire – o se seguirli, contemporaneamente, tutti.

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We – noi – è, al contrario, il disco di chi, maturo, adulto, scorre con le dita il nastro già scorso e ne analizza le immagini: ricorda i bei momenti, i successi – le soluzioni musicali intelligenti, eleganti, originali: i marchi di fabbrica – e li rielabora, con una sensibilità tutta nuova. Quella dell’età della saggezza, sia personale che come band. C’è anche un tocco di esistenzialismo russo, in We. Infatti, la prima persona plurale è anche il titolo di un romanzo di Eugeny Zamyatin del 1926, da cui George Orwell prese a piene mani per il suo 1984. E da cui, più recentemente, Jordan Peele ha vagamente tratto, declinandolo nell’horror, Us – terrificante pietra miliare. In We, il romanzo di Zamyatin, il tema del libero arbitrio viene affrontato tramite una satira volutamente esagerata: ogni istante della vita dei cittadini dello Stato Unico è regolata da una rigida programmazione – al fine di assicurare la gioia derivante dal vivere nel punto zero di Kierkegaard, la non decisione perpetua. Può questo, in qualche modo, generare ansia nell’uomo moderno, quello del ventesimo secolo? Può esistere ancora riflessione sul libero arbitrio nell’epoca dei social, dei servizi di streaming, della cultura globalizzata? (ndr: secondo me sì).

In We si ritrovano elementi sia da Funeral che dal più recente Reflektor, con piccole contaminazioni elettroniche di The Neon Bible e Everything Now. La componente danzereccia dell’ultimo è accennata nei beat della prima parte del lavoro, la cosiddetta Age of Anxiety – quella in cui viviamo. Frenetica. In cui non si permette a sé stessi di avere il tempo di prendersi cura della propria igiene mentale. Il tema di We, dunque, la riflessione sulla propria autodeterminazione, è estremamente abusato, e lo sceglierlo, dal punto di vista lirico, è un azzardo, che però viene portato avanti con scelte artistiche, in termini di riferimenti e declinazioni, non troppo traballante.

Si parte da Age of Anxiety I, all’apparenza frivola opening EDM in cui la voce di Butler, nel refrain, si fa tremula: il respiro nell’interludio si fa affannoso, il cantato di Regine è stentoreo, l’aria viene afferrata coi soli muscoli della gola – il diaframma, nell’attacco di panico, non funziona. La frenesia è esplorata ulteriormente nell’acida Age of Anxiety II (Rabbit Hole), che, forse, scade ancora nel clichè a là Alice nel Paese delle Meraviglie: il dream pop è qui dominante, con un piano sognante che sorregge le voci dei vocalists. Il pezzo viene costruito in modo additivo, strato dopo strato, per poi lasciare spazio alla seconda sezione del disco: la fine dell’Impero.

Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse.

Diceva Paul Verlaine in Languore, suo componimento più famoso: lo spleen, in We, è qui distillato, e cade come pioggia, o nasce dal suolo d’America; è un lied per la fine degli USA, il loro tracollo. Il purgatorio di We è rappresentato con un quartetto di movimenti placidi, beatlesiani nelle soluzioni – riferimento, sicuramente, voluto, ad un’epoca positivista distante anni luce; ed è concluso da Sagittarius A*, il gigantesco e vorace buco nero supermassiccio che tutto fa girare, vorticare, nella nostra galassia, rendendo possibile la nostra stessa esistenza. Come dicevo, interessanti sono le soluzioni poetiche, gli accostamenti, i rimandi, scelti dagli Arcade Fire per descrivere un tema così abusato: l’accostamento fra l’esistenza di Sagittarius A*, un’entità così incommensurabile da essere paragonabile ad una divinità in fasce, e le miserabili recensioni date da un anonimo consumatore verso il servizio di streaming TV del momento – “I Unsubscribe”.

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Le due suite, musicalmente, si rifanno molto a Funeral: Last Round, secondo movimento della prima suite, in particolare, introduce la fanfara di chitarre distorte a cui i fan degli Arcade Fire sono abituati. Forte è anche la componente dell’ormai classico indie americano dei Killers e dei The Nationals.

La solfa di We cambia radicalmente con la terza porzione dell’album, quella dell’illuminazione, del risveglio, della disclosure: The Lightning. Ariosa e gioiosa, The Lightning I e II accoglie, invece, la spensieratezza degli anni ’80 coi suoi synth analogici e suona come una ballad delle Heart o di un brano da lato B di Heaven is a Place on Earth di Belinda Carlisle: ed è una felice resa all’impossibilità completa di potersi autodeterminare, ed accettare, banalmente, la vita per ciò che è. Una Funeral 2.0: nel videoclip la band si aggira per un campo, una fattoria, coi propri strumenti – come lo faceva nel sobborgo nel 2004.

It’s not up to you

Some you win, some you lose (when the lightning comes)

You don’t get to choose

Some you win, some you lose (when the lightning comes)

Un tocco di bluegrass, e l’eleganza dei Dire Straits, in Unconditional (Lookout kid) che è una sorta di Father&so in stile Arcade Fire: un’accorata predica ad un figlio nell’accettare la vita nei suoi momenti luminosi e bui – perché ciò è parte dell’esistenza stessa. Sua gemella è Unconditional II (Rance and Religion) in cui Regine si fa Bjork e vede la presenza di Peter Gabriel – sì, proprio lui – ed è sorretta da un eccellente giro di basso mentre gioca con una drum machine ed un bongo. We termina, poi, con la title track, che è una lenta ballad in chitarra acustica nonché fulcro filosofico dell’album: la vita, a più di quarant’anni, è ormai accettata con i suoi momenti di dolore, di decadenza e di abisso, ma anche con i suoi picchi di gioia, di serena routine, di soddisfazioni quotidiane. E in ciò non va vista miseria, meschinità, piccolezza: ma bisogna cogliere la pienezza di ogni aspetto di essa, perché – come ben sappiamo da Afterlife – è l’unica che abbiamo. L’ending di We scatena la pelle d’oca, e un’insana voglia di saperne di più. Dell’album, e della vita stessa.

We won’t see you on the other side, stavolta, Arcade Fire: We è un ottimo album, eppure, musicalmente, non riesce ad arrivare al lirismo metamusicale toccato da The Neon Bible; risulta in ogni caso una perla nella discografia della band canadese, un ascolto piacevolissimo e, soprattutto, ricco di interessanti spunti di riflessione. Ricco di speranza, distante dall’oscurità, sarcastica, coperta da un velo di ironia, esplorata nei precedenti lavori della band. L’età dell’accettazione, dopo la decadenza, è iniziata. Per noi.

Giulia Della Pelle
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