Under the Banner of Heaven è una miniserie di Dustin Black Lance, distribuita da Hulu, incentrata su un caso di cronaca nera – e basata sull’omonimo romanzo di Jon Krakauer.
Martin Scorsese, dall’alto della sua esperienza e del suo talento, aveva compreso numerose cose, quando iniziò a girare Silence: che Andrew Garfield e Adam Driver fossero fra i migliori attori contemporanei. Ora, Garfield, dopo essere stato lanciato come l’ennesimo, fallimentare, interprete di Spiderman, ha avuto l’onere di sostenere quasi interamente da solo una miniserie di altissime (e sacrissime) premesse: l’americana Under the Banner of Heaven, o, per gli italofoni, In Nome del Cielo.
Nel 1984, due mormoni, discesi nella piaga aperta e purulenta del fondamentalismo, uccisero una donna e la sua bambina. Il processo che ne seguì, e l’investigazione, furono oggetto di un famoso bestseller di John Krakauer, intitolato appunto Under the Banner of Heaven.
Nella serie tv, creata, formata dall’argilla con la sua personale firma da Dustin Lance Black (lo sceneggiatore premio Oscar di Milk), siamo per l’appunto nel 1984. Garfield interpreta il detective Jeb Pyre, ad East Rockwell, sotto il sacro cielo dello Utah. E’ un fervente mormone, sposato con una ferventissima mormona, figlio di una madre spiraleggiante verso la demenza senile, e padre di due bambine. Suo collega fraterno è il nativo americano Bill Taba, interpretato dall’eterno (e sempre bravissimo), Gil Birmingham.
Il duo, sebbene affiatato, soffre delle ovvie differenze culturali: Taba è stato appena riassegnato da Las Vegas, è divorziato, completamente ateo, e cova un vago rancore verso tutti i bianchi, tutti i colonialisti, e tutti gli oppressori della sua gente. Pyre, dal canto suo, sebbene non fondamentalista, possiede una fede cieca verso la chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, e, prima dell’omicidio del 1984, pare non essersi mai posto domande sul proprio stile di vita.
Eppure, l’orrore accade anche nella tranquillità di East Rockwell, sotto il vessillo del cielo. Una giovane donna mormona, Branda Lafferty (Daisy Edgar-Jones), moglie di Allen Lafferty (Billie Howle), e la sua bambina, vengono trovate barbaramente assassinate in casa. Il marito, coperto di sangue, poco lontano. Da quel giorno, un tremendo turbine avvolgerà il credente detective, che porterà ad un viaggio allucinante fra la storia del mormonismo, l’orrore degli inizi, il compromesso con la Confederazione che diverrà, poi, gli Stati Uniti, e l’omertà che caratterizza, ovunque, le piccole comunità.
Fin da subito, Pyre si renderà conto della disfunzionalità del clan dei Lafferty, una rispettata famiglia composta da padre, madre, e sei figli maschi, di cui cinque sposati ed uno mentalmente ritardato: tutti dei veri credenti, eppure tutti con la propria personalità, sebbene condividano tutti la fragilità emotiva nel farsi ingannare dalle promesse divine – distorte dal profeta autonominato di turno. Nel mucchio selvaggio di testosterone, spiccano Ron (un irriconoscibile Sam Worthington! Invecchiato come un buon vino rispetto al ruolo che lo rese famoso, Avatar) e Dan (Wyatt Russell): l’uno il piu’ anziano del clan, il primogenito, un self-made man nel campo dell’edilizia, e che si concede perfino di mangiare patatine fritte del McDonald’s, ogni tanto; l’altro, carismatico ma con evidenti problemi di gestione della rabbia, sposato ad una miscredente sull’orlo della schizofrenia, una Jezebel con due figli fuori dal matrimonio – la mite Matilda (Chloe Perry). La moglie di Ron, al contrario, è una personalità frizzante, esplosiva, che fa da contraltare alle velleità da leader di Ron: Dianna (Denise Gough). Che subito legherà con Brenda, moglie dell’ultimo genito Allen. Brenda, che ha avuto l’ardire di andare al college, conseguire un Bachelor of Arts in giornalismo, nonostante suo padre sia un vescovo mormone, e di lavorare come anchorwoman nella TV dello Utah. vien da sé dire che Allen, omino senza fegato e succube dei dettami del padre Ammon (un immortale Christopher Heyerdahl), e dell’invasato fratello Dan, la costringerà a ritirarsi in casa a passare le proprie giornate in prigionia.
Nel mormonismo, chiunque è un santo: chiunque, di sesso maschile, può essere un “priestohood holder” – un possidente di qualità di officiante – e per tale deve essere rispettato dalla sua compagna, la moglie, poco piu’ di una schiava di proprietà con limitate libertà, e dai figli, di cui può disporre a piacimento, ma nei limiti della legge imposta dagli Stati Uniti: banalmente, ad alcuni dei fratelli Lafferty, ciò non bastava piu’.
La violenza sottesa ad Under the Banner of Heaven ricorda, per costruzione, quella della prima leggendaria stagione di True Detective: Garfield e Birmigham, sacro e profano, creano una coppia meno teatrale e shakespeariana di quella composta da McCounaghey e Harrelson; per tale ragione, però, si tende a credere molto di più ad entrambi. Non si tratta di eroi tragici, ma di persone, professionisti: il ruolo dell’eroe tragico disceso nella pazzia, del Machbet insozzato di sangue e rotolante in un melmoso delirio paranoide, è lasciato a Ron. Ciò che per dire che la sceneggiatura di Lance è solida e corposa: le quasi otto ore di Under the Banner of Heaven forniscono il giusto tempo per assaporare lo svolgersi della vicenda e il dipingere un mondo così vicino a quello profano che sembra di poterlo toccare. Si è detto, chiaramente da fonti ufficiale della chiesa LDS, che Under the Banner of Heaven fornisce un ritratto impietoso del mondo mormone: chi sono io per confermare o smentire?
Per ciò che concerne il lato recitazione, Under the Banner of Heaven si avvale di ottime personalità: il sorprendente Worthington, quasi sparito dai radar da anni, e la sorpresa Wyatt Russell, fra movenze fisiche e tremolii di labbra; conferma invece per Andrew Garfield, che ritrae con magistrale dolcezza un uomo in lotta fra la sua religione e la sua necessità di verità. La regia di David McKenzie non si fa sfuggire le piccole espressioni, le contrazioni di piccoli muscoli facciali: indugia nei dettagli, insiste nel dubbio e infine nel delirio, per ritrarli, senza giudicare nulla – naturalista.
La tangibilità del mondo degli anni ’80, anni di rivoluzione sessuale e degli eccessi, è invece effimera nel clan Lafferty: nell’antiquato arrendamento di broccato, nelle obsolete decorazioni dello studio di chiropratico (che, peraltro, è una pseudoscienza) gestito da Dan; nelle baite di montagna abbandonate, nelle tendine sporche per non fare entrare sguardi sgraditi all’interno di quei luoghi bui, quelle prigioni, in cui il sacro è distorto e insozzato. Il dualismo che permea Under the Banner of Heaven è onnipresente anche nelle scenografie, talvolta fangose, talvolta linde e vergini. Particolarmente evidente è tale aspetto nei flashback concernenti Joseph Smith, il primo profeta e fondatore della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni: i suoi, personalissimi, ultimi giorni, sono prima colorati e lucidi, fintanto che la supposta santità ancora era con lui, e, infine, nella morte, brutti, sporchi, vernice scrostata e maniche di camiciole macchiate.
Under the Banner of Heaven è, dunque, un lavoro pregevole ed interessante, che ha avuto, fra gli altri effetti, quello di rilanciare attori misconosciuti, come Worthington e Rory Culkin (Sam LAfferty), oltre che ad intrattenere degnamente con un ottimo passo, ben scandito dalla regia di David McKenzie.
Chissà come suonava la storia del profeta Mormon in egiziano riformato…
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