Gli Arcade Fire si sono esibiti a Rho Fiera Milano, offrendo uno show teatrale dove ogni elemento si incastra in un puzzle musicale visivamente perfetto. La band canadese è tornata in Italia per festeggiare il ventennale di “Funeral”, il loro album di debutto. L’ironia dell’accostamento tra “festeggiamento” e “funerale” diventa accettabile e comprensibile al termine delle due ore di spettacolo.
“Funeral”, appunto, album di debutto degli Arcade Fire nel 2004, è quel classico capolavoro che unisce critica e pubblico, mainstream e mondo alternative. Si pone in quella terra di mezzo riservata a pochi eletti, priva di haters e piena di apprezzamenti trasversali dai fan di ogni genere. Dopo l’immancabile nomination ai Grammy Award, non sono mancate le citazioni d’autore in tutti i listoni giornalistici tipo “best album decennio”, “best debut album”, “best alternative band”.
Il titolo dell’album è stato ispirato da una sfortunata concomitanza di decessi di persone vicine alla band. L’atmosfera è quindi total black, ma le canzoni si muovono su tanti binari particolari.
Come ci si approccia, dopo 20 anni, alla celebrazione di un album simile?
I due enormi tendoni rossi si aprono alle 21:15 circa, in una location sinceramente non abbastanza gremita. Gli Arcade Fire salgono sul palco con una band versione deluxe, 11 elementi in outfit nero funereo stile “Nightmare Before Christmas” e rose bianche sparse.
La risposta è subito extrasensoriale.
Si parte con l’opening track di “Funeral”. Régine Chassagne accende dei grossi vasi d’incenso, invadendo l’olfatto dei presenti nel PIT, mentre i visual proiettano una cornice cinematografica con disegni dai loro primi video e deboli luci calde sullo sfondo.
Il concerto è strutturato in due “atti”, come fosse una storia, un film che simboleggia la morte e la rinascita. Non c’è la classica uscita di scena a poche canzoni dalla fine; la band sceglie una pausa netta. Prima tutto l’album “Funeral”, poi tutto il resto. Gli Arcade Fire esorcizzano la morte, prima calandosi nelle tenebre, poi ballando tra la folla in un mare di luci. Tutto il concerto è incentrato su questo dualismo, la contrapposizione tra l’album d’esordio e tutto quello che viene dopo. La linea è netta e l’impatto che ne deriva è ovviamente amplificato.
Il primo “atto” prevede la trasposizione fedele di “Funeral” in versione integrale. “Neighborhood #3 (Power Out)” inizia a scaldare i motori, innalzando il ritmo. “Crown of Love” è magica, con un canto straziante al piano di Win Butler, e prepara il terreno per “Wake Up”.
“Wake Up” e “Rebellion (Lies)” sono inevitabilmente le più attese e riescono a coinvolgere il pubblico certificando l’importanza di avere in scaletta hit così impattanti. I cori accompagnano le due canzoni con il pubblico bisognoso di gridare e cantare, prolungando i rispettivi finali.
Tutto è perfettamente bilanciato. Win Butler e Régine Chassagne sono una coppia sia nella vita che sul palco, e la loro complicità è formidabile. Si completano nella loro imprevedibilità costante, alternandosi nei ruoli di leader involontari. La semplicità con cui passano da chitarra, basso, batteria, fisarmonica, piano, synth, oltre a cantare, ballare e non fermarsi un singolo momento, è una sfida continua all’attenzione. Tempo di prendere una birra al bar e li ritrovi con strumenti sempre nuovi.
Sul palco ci sono anche tre violiniste che danno potenza e rendono aulico ogni momento più catartico. I cori del pubblico accompagnano anche “In the Backseat”, che chiude l’album e la prima parte dello show.
Gli Arcade Fire salutano quindi il pubblico ed il sipario si chiude. Nelle casse risuona Gino Paoli, quasi come se il concerto fosse davvero finito. La platea, quasi tutta over 25, sembra già soddisfatta, ma ovviamente c’è dell’altro.
La riapertura del sipario offre subito un contesto visivamente diverso. Incenso e rose bianche sono sostituiti da drappi e pupazzi enormi e coloratissimi. I vestiti neri si trasformano in outfit dai colori sgargianti mentre la palla stroboscopica illumina la platea, immergendola in un nuovo mondo. “Age of Anxiety II (Rabbit Hole)” inaugura la seconda parte con suoni elettronici e synth protagonisti.
Durante l’esecuzione di “Funeral”, Win e Régine guardavano e guidavano il pubblico dall’alto. L’inizio del secondo atto invece distrugge questo velo invisibile. I due sembrano persone completamente nuove, si buttano tra la folla, immergendosi negli abbracci dei fan.
Il bruco è morto e diventa farfalla, il nero lascia spazio al colore che si infiltra tra tutte le crepe. È tempo di colori e canzoni da cantare con le braccia in aria e con i capelli sudati, tra gli abbracci della gente.
“Creature Comfort” incendia il pubblico, ma la combo mortale è la successione di “Reflektor” e “Afterlife”. “My Body Is a Cage” è un momento viscerale, un brano intenso, profondo, desiderato. Spezza il ritmo del flow precedente, ma è tra i brani più riusciti della serata. “In the Suburbs (Continued)” spazia ancora con il ritornello in falsetto stile Metronomy ripetuto in loop. “Everything Now” chiude il set con una costruzione ritmica perfetta.
La bravura degli Arcade Fire risiede nella sapiente costruzione dello show in tutte le forme: dall’attitudine sul palco agli elementi visivi, dall’alternanza costante di strumenti e ruoli che stordisce lo spettatore, incapace di concedersi un attimo di sana noia. Tutti suonano tutto, tutti i membri sul palco sono performer, tutti hanno elementi unici. Non c’è un leader, c’è una band formata da personaggi disparati e diversissimi tra loro, sorretti dalla musica. Quante band possono passare da canzoni con contrabbasso e violino a synth elettronici e basi dance con xilofono nel giro di qualche minuto?
Il saluto degli Arcade Fire è accompagnato dal coro immancabile di “Wake Up”, incitato da Win Butler. Anche nei movimenti, Win Butler ha ormai “brevettato” le sue mosse tipiche, dalla chitarra innalzata in aria al canto inginocchiato con mano al cuore.
Ci sono gli “oooohh ooohhh” del pubblico, si balla, ci si emoziona e c’è tanta musica suonata come si deve. Un concerto dovrebbe essere così. Gli Arcade Fire sono l’espressione fin troppo perfetta di come didatticamente dovrebbe strutturarsi un concerto. Jack Black sono sicuro mostrerebbe un loro live alla nuova classe di School of Rock.
La vera domanda che sorge spontanea è: cosa altro devono fare per trasformare le 7.000 persone in 70.000?
È una domanda ovviamente priva di risposta che ha continuato a ronzarmi in testa mentre, sotto la pioggia, ero bloccato nel traffico post-concerto di Max Pezzali a San Siro, contestuale agli Arcade Fire appunto.