Animal Kingdom è il primo lungometraggio di David Michod, regista australiano famoso per i film Netflix Il Re e War Machine.
La selezione naturale è una legge universale. Crudele, forse, ma giusta: non solo il più forte sopravvive, ma il più adattato all’ambiente. Il più grande deloni, re della foresta, soccomeb se una terribile epidemia investe il branco: forse, invece, il cucciolo più gracile, è di per sé immune.
È su questa filosofia – mutare l’ambiente, non il branco – che si basa Animal Kingdom di David Michod, film del 2010 che ricevette il plauso di pubblico e critica e da cui fu tratta una fortunata serie tv.
Joshua “J” Cody (James Frecheville) è un diciassettenne, grosso e allampanato, figlio di un’eroinomane morta per overdose. Non sapendo cosa fare – pur conscio che la madre ha sempre cercato di allontanarsene – Joshua telefona alla nonna Janine “Smurfs” (Jacki Weaver), patinata e materna matriarca di una nota famiglia criminale di Melbourne, per l’appunto, i Cody. È qui che la realtà si mescola con la finzione: Michod, infatti, si ispirò alla storia vera della genìa dei Pettingill, un clan criminale che terrorizzò Melbourne negli anni ’80.
J si trasferisce assieme ai suoi zii nella grande – e bellissima – casa dei Cody : gli zii Andrew (Ben Mendehlson), detto “Pope”, rapinatore ricercato dalla polizia, Craig (Sullival Stapleton), trafficante di droga e Darren (Luke Ford), più o meno dell’età di J e privo di qualsiasi tipo di spina dorsale. Il cattivissimo Pope, che si nasconde in casa della mamma Smurf, ha una sorta di tirapiedi chiamato Barry (Joel Edgerton) che, durante un incontro clandestino con Pope in un supermercato, viene freddato da due poliziotti. Nel mentre, Joshua rinsalda il suo rapporto con la fidanzata Nicky Henry, ragazza di ottima famiglia ma un po’ ribelle.
Il casus belli di Animal Kingdom è qualcosa che nel regno animale non esiste: la vendetta.
Il Cody-Clan, senza il giovane J lasciato a casa a dormire, trucida due poliziotti di pattuglia totalmente a caso con l’intento di mandare un messaggio a quell’anticrimine che, a Melbourne, sembra avere il grilletto un po’ troppo facile. Durante gli interrogatori ai Cody, che vengono individuati ben presto, il detective Nathan Leckie (Guy Pearce) si fa un’idea ben precisa di chi è Joshua: l’unico innocente in una famiglia totalmente corrotta e marcia. Il leoncino debole. E si prefigge di salvarlo.
Senza indugiare nella violenza gratuita, ma in una didascalica e asettica – ed efficacissima, per la sua natura di semplice racconto – Animal Kingdom compie una vera e propria carneficina. La distruzione di un vero e proprio branco, sempre più forte nell’allegoria di rappresentazioni onnipresenti nella scenografia di Jo Ford di leoni, gazzelle, tigri, viene compiuta sia dal suo elemento più debole, Joshua, che dal più forte, Pope. Teoricamente, il più forte: Pope è un leone paranoico che teme di perdere la criniera, e compie gesti efferati, soffiando e sputando, privi di senso logico. Leckie, unico retto e irreprensibile, non può far altro che mettere sotto protezione testimoni – praticamente un tranquillo zoo di provincia – l’innocente J.
In un branco di iene, però, la gerarchia è matriarcale: in tal senso, forse, i Cody sono più vicine ad esse che ai felini. Perché è Smurf, tutta sorrisi e ciglia finte, ad impartire la direzione al branco: è lei che decidere chi uccidere, chi piangere, con chi festeggiare. Quando essere positiva e quando essere spietata. Ed è ciò che contraddistingue – essere madre, ed essere quanto di più distante possibile dall’esserlo davvero, dal saper difendere i propri figli. Ne dispone come soldati, rifiuta che essi abbiano una propria libera identità, li bacia morbosamente sulle labbra e vuole che siano tutti attorno a lei, come i cuccioli attorno alla grande carcassa abbattuta di uno gnu.
Il casting risulta eccezionale in Animal Kingdom: la fisicità di Frecheville, un tipico adolescente che si ritrova nel corpo di un uomo senza esserne ben conscio delle proporzioni, rimarca la sua inadeguatezza alla vita che si ritrova costretto a fare – nella quale neanche sguazza, ma neppure va a fondo.
Gli zii, fratelli, nella loro bionda e handsome sregolatezza, sono tutti credibilmente imparentati; la pazzia di Pope è dipinta con crudo realismo da Mendehlson in un’interpretazione a dir poco eccezionale.
La minimale semplicità del racconto è espressa nella telecamera di Michod, che è indagatrice discreta, come un report d’inchiesta – quale Michod effettivamente era prima di entrare nel cinema – e scruta da lontano i personaggi, rimanendo fissa mentre loro si agitano su poltrone, divani, automobili, letti, muovendo pistole e tirando cocaina. È fissa sul teatrino di figli che strepitano attorno alla mamma e attorno alle spalle curve di Joshua. Si muove rapida, però, nel finale: ed ecco che sì, questa è un’ambiziosa prova registica pienamente realizzata nel primo lungometraggio di Michod.
Animal Kingdom è, dunque, un must per chiunque ami il cinema noir e crime: un piccolo gioiello nascosto.
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