Oldboy, Park Chan-Wook: piangi, e piangerai da solo

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Oldboy è un film di Park Chan Wook del 2002, vincitore del Grand Prix della Giuria del Festival di Cannes del 2004 e secondo film della trilogia della vendetta del regista di The Handmaiden.

Parasite di Bong Jon-Hoo ha avuto svariati, giganteschi, meriti: li abbiamo analizzati tutti qui. In particolare, però, ha fatto sì che la poesia espressionista del cinema coreano divenisse nota anche al cinefilo dell’ultima ora.

Invece, per chi si nutre di pane, vino, e celluloide, c’era già stato un altro gran regista che la Rai ebbe il coraggio di esportare sul piccolo schermo: Park Chan Wook.

Regista sudcoreano classe ’63, che iniziò la sua carriera con uno smisurato amore per Quentin Tarantino e Hitchcock – e incredibilmente sfortunato. Portatore di temi scomodi e di un linguaggio espressivo crudo e carnale, il suo vero e proprio esordio cinematografico si ebbe con un titolo che è rimasto nel cuore di molti critici cinematografici: Sympathy for Mr Vengeance, del 2002. Una storia silenziosa – se non altro per l’essere sordomuto del protagonista – interpretata da una magistrale Bae Doona, volto noto della tv e del cinema occidentale – come dimenticarla nel pappone kolossal delle Wachowski, Cloud Atlas?

Fra le tante innovazioni portate da Wook nel cinema, ed esportate prontamente nella parte occidentale e meno passionale del mondo, c’è la cura, e la sua elevazione a linguaggio divino, dell’ossimoro. Oldboy, il suo più grande successo, è un film ossimorico – ed universalmente riconosciuto come classico.

Ed è con Oldboy che diviene ufficiale la trilogia della vendetta, composta da, appunto, Sympathy for Mr Vengeance, Oldboy, e Lady Vendetta – il film più hollywoodiano del concept, ma non per questo peggiore.

Oldboy: è un termine non di certo inventato da Wook, in quanto titolo di un fumetto coreano – cui, va detto, la sceneggiatura del film è superiore in lirismo e caratura – omonimo. Il concept, sebbene esplorato in modo differente, permane lo stesso: un uomo, fondamentalmente innocente, Oh-daesu nel film, Shinichi nel fumetto, viene rapito e tenuto segregato in una stanza – quattro mura scrostate, un lettaccio, una tv – per quindici anni. Oh-daesu è interpretato da uno dei migliori attori coreani in circolazione: Choi Min-Sik, figura bistrattata dal cinema occidentale e riconosciuto solamente da Luc Besson che gli diede un ruolo in Lucy del 2015. Il suo recluso è una figura esplosiva, nelle espressioni di shell shock, nei pugni al muro imitando il pugilato in tv – quello vero, lontano chissà quanti milioni di km – nella sua ossessione iniziale, scavando nella propria memoria e tentando di immaginare cosa mai potesse aver fatto per meritare ciò, e, infine, nello scoramento. La televisione, unica compagna di quei lunghi quindici anni. Quiz a premi, documentari sulla natura selvaggia, televendite: unico contatto col mondo, al di là dei pasti di un ristorante cinese che gli venivano consegnati durante le lunghe notti. Il ragazzo diviene vecchio, decrepito dentro, ma furioso fuori.

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Oh-Daesu, però, non è uno stupido: è un eroe shakespeariano, è un Edipo, un Amleto, un Giulio Cesare. È intelligente, sveglio, scaltro, e la sua resilienza è pari al suo spirito di autoconservazione. All’improvviso, Daesu viene liberato – su un anonimo tetto, in compagnia di un anonimo suicida e del suo anonimo cane. Il viaggio allucinante attraverso gli abissi della memoria e della vendetta trasportano Daesu attraverso piani sequenza di scazzottate tekkeniane – omaggi a Tarantino a profusione, cosa che Tarantino stesso non ha mai nascosto di ricambiare – misteriosi incontri, e l’avventura sentimentale e sessuale con la giovanissima cameriera Mi-Do (Kang Hye-jung). Unita a due strazianti ricerche: attraverso il blando legame telefonico che ha col suo carceriere, Lee Woo-jin (Yoo Ji-tae), quello di ricordare il perché di tanta crudeltà; e quella della figlioletta, il cui ultimo ricordo è lei, con un costume da farfalla, in un ristorante tradizionale. Una bambina abbandonata, che ora dovrebbe avere almeno venticinque anni.

Oldboy è un film, come ho detto, ossimorico. Wook muove i fili della verità attraverso quelli del dubbio, e lo fa con l’espediente dell’ipnosi: tratto appena abbozzato nel fumetto, Daesu è vittima dell’ipnosi regressiva operata da Lee, che, come in Tell Tale Heart, non attende altro che la sua vittima scopra la sua colpa.

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Oldboy, peraltro, gioca sulla scomodità di temi distanti dalla cultura cristiano-cattolica occidentale, ma vicinissimi a quella classica greco romana: vendetta, furia, ed incesto. La vendetta – come fine ultimo di una vita distrutta, con solo una lievissima possibilità di catarsi – è elevata a valore universale che accumuna tutti: vittima e carceriere, i morti ed i vivi. I morti, intere legioni, in una scia di sangue e denti spezzati che si muove fin dai primi minuti della pellicola – una pellicola coloratissima, pulp, vivida, sanguigna, nella fotografia di Chung Chung-hoon, altra recente scoperta del cinema occidentale nella bella prima parte di It di Andy Muschietti, si uniscono ai vivi in flashback a volte confusi dall’ipnosi, a volte chiarissimi, a volte vittime del dubbio del teatro di John Patrick Stanley. Si muove fra il tragico ed il tragicomico, con i sorrisi impazziti e muti di Daesu, un novello Edipo Re che si strazia per l’incesto ma non può fare a meno di amare lei. E nell’assurdità della situazione, l’unica via d’uscita è proprio l’amore: un amore impossibile, possibile solo tramite la bugia. La bugia più grande di tutte. Una bugia che ha mille sfaccettature, tanto infinite sono le combinazioni dei cristalli di neve – nel finale. E che passa, come un polpo divorato vivo, inchiostro che schizza disperato, attraverso il sacrificio dell’ultimo barlume di innocenza.

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Lee Woo-Jin, antagonista di Daesu.

L’ossimoro, nucleo radioattivo di Oldboy, è espresso anche attraverso la colonna sonora di Jo Yeong-wook, noto anche per quella de La Concubina di Kim Da-Seung (con protagonista proprio lei: la mamma in Parasite, Jo Yeo-Jeong). Neoclassica, fonde valzer e ispirazioni vivaldiane con momenti elettronici ben calati nei primi duemila nei quali il film si svolge, nella Seul sporca che forse neanche esiste che viene dipinta da Wook. Violenza, sangue, dolore, mani mozzate, ricordi strazianti, si mescolano a delicatissime note di piano distanti, mentre le scene climax sono affidate ai due splendidi pezzi Cries and Whispers e The Last Waltz.

Piangi, e piangerai da solo,

Ridi, e il mondo riderà con te.  

Ecco, forse solamente Oldboy, prima di Parasite, ebbe il merito di portare al pubblico occidentale – complice anche l’orrendo remake di Spike Lee – il lirismo distantissimo, quasi fumettistico – da Punitore, da Daredevil, più vicino all’epica greca che ai candidi relativisimi hollywoodiani – del cinema coreano contemporaneo. Un linguaggio espressivo potente, che fonde i colori inquietanti del Der Blaue Reiter con gestualità shakespeariane. Possibile, forse, solo in luoghi ibridi come la Corea o il Giappone. Lady Vendetta seguirà la stessa falsariga di Oldboy, ma in modo più delicato e meno esplosivo – non per questo meno efficace.

Oldboy è un film che ha colpito i grandi registi moderni: Tarantino, Ari Aster, Robert Eggers, ed il suo recente The Lighthouse. E che meriterebbe, infine, molto più del riconoscimento che ha avuto, perché, possiamo affermare con assoluta certezza, che il capolavoro di Wook faccia parte, oramai, della ristretta schiera di classici moderni.

Giulia Della Pelle
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