Nella serie tv Netflix Narcos appare una scritta proprio all’inizio della prima puntata: “Il Realismo Magico è definito come ciò che accade quando un ambiente altamente dettagliato e realistico viene invaso da qualcosa di troppo strano da credere”.
Ovviamente la chiara citazione alla corrente letteraria nata in Sud America è palese, tuttavia quello che fa pensare è come questa frase così potente possa, in effetti, collegare in qualche modo molti aspetti della vita comune di ognuno di noi.
Ogni tanto la mente necessita di un intreccio (anche paradossale) con le nostre passioni più entusiasmanti: comparare due o più aspetti, anche profondamente diversi tra loro, è uno stupendo allenamento per il cervello. Ed è proprio su questa base di pensiero che si è balenata nell’aria questa idea: perché non pensare ad un realismo magico anche nel mondo dello sport?
Sia nel calcio che nel basket infatti capita molto spesso di vedere cose che, cito testualmente un noto film, “Che voi umani non potete neanche immaginare”: basti fare i nomi di Lionel Messi, Cristiano Ronaldo e Lebron James.
Tuttavia questi tre fanno parte di un altro mondo, non sono definibili per natura esseri umani. La Santissima Trinità non verrà quindi considerata, ma verranno analizzate le gesta di atleti che sono una via di mezzo, un punto d’incontro tra, appunto, il reale e il magico.
Vince Carter, aka Air Canada
il primo nome è sicuramente lui, il più longevo giocatore Nba di tutti i tempi: Vince Carter. Nella sua infinita carriera la guardia, ora in forza agli Atlanta Hawks, ha lasciato dei ricordi indimenticabili nelle menti degli appassionati, ma ciò che lo ha portato verso la Storia con la S maiuscola è la gara delle schiacciate del 2000.
Dall’inizio alla fine della competizione Carter ha sugellato negli occhi degli spettatori un vero e proprio One Man Show, una piccola rivoluzione all’interno del mondo della pallacanestro. Del resto Vinsanity, soprannome datogli da Shaquille O’Neal, poco prima dell’All Star Game aveva preannunciato in una conferenza che la gente avrebbe ammirato “Qualcosa di mai visto prima”. L’odore della Storia già iniziava a diffondersi nell’aria.
Let’s go home ladies and gentleman.
Come Aureliano Buendìa, il protagonista di Cent’anni di Solitudine di Gabriel Garcìa Marquez, preannunciava nelle prime due righe del Romanzo una scoperta per lui eccezionale, così Vince Carterha preparato per gli appassionati uno spettacolo tutto da gustare.
Buendìa racconta di come, da bambino, abbia visto per la prima volta il ghiaccio, elemento sconosciuto per una persona che vive nella giungla colombiana. Ed è proprio in questa materia che si sono trasformati gli spettatori dello Slam Dunk Contest del 2000, quando hanno visto la terza schiacciata di Carter.
Vedere per credere, minuto 44:15. Kevin Garnett, Shaquille O’Neal, Jason Kidd e l’attore Michael Keaton: tutti loro si sono trasformati in statue di ghiaccio di fronte al Realismo magico di Vince Carter.
Manu Ginobili, il profeta di Bahia Blanca
Emanuel Ginobili, ex-giocatore dei San Antonio Spurs, è stato insieme ai colleghi Tim Duncan e Tony Parker il collante della squadra Nba della città texana. Il suo innato senso della posizione lo hanno reso il vero e proprio metronomo della sua franchigia: rendeva possibile immaginare un qualcosa che in realtà non sembrava esistere.
Per essere un poco più specifici della capacità di osservazione e realizzazione del giocatore argentino basta vedere il suo approccio a Gara 7 delle Finals, contro i Detroit Pistons di Chauncey Billups e Rasheed Wallace:
Sopra il parquet Nba (e prima su quello del campionato italiano), Ginobili ha letteralmente disegnato giocate di altissima qualità, non rendendosi conto tuttavia che la sua velocità di pensiero a volte anticipava i suoi stessi compagni di squadra.
Se si riprende come esempio il romanzo di Marquez Cent’anni di Solitudine vediamo come il pater familias dei Buendìa, Josè Arcadio, possa essere a sua volta anche un antenato dello stesso Ginobili, poiché come l’argentino anch’egli anticipa i tempi; in confronto alle persone che lo circondano, Josè Arcadio altri non è che un innovatore.
“Josè Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontana dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione per sviscerare l’oro della terra”
Le parole chiave di questo breve estratto del capolavoro di Marquez sono essenzialmente due: immaginazione e invenzione. La spiegazione a tutto questo si può trovare facilmente in una qualsiasi azione offensiva di Ginobili.
Che sia un tiro da due, un tiro da tre o una palla rubata, per il giocatore di Bahia Blanca (città natale di un altro atleta niente male, Lautaro Martinez) non fa nessuna differenza. Non è altro che un modo per poter immaginare un atto che per lui è normale, ma che per il resto degli altri è tangibile magia.
L’insostenibile leggerezza di Guti
Guti, pseudonimo di José Maria Gutiérrez Hernández, è stato uno dei fari del calcio spagnolo; ex-giocatore del Real Madrid, per quasi tutta la carriera si è distinto nella squadra delle Merengues collezionando trofei su trofei. 5 campionati spagnoli, 4 Supercoppe spagnole, 3 Uefa Champions League, 2 coppe intercontinentali, 1 Supercoppa Europea: il palmares di Guti rappresenta molto la sua carriera, anche se bisognerebbe collocarlo oltre un mero aspetto statistico.
Il centrocampista spagnolo è stato infatti un eccezionale assist-man, collocandosi quindi in una nostalgica e incredibile lista di giocatori che si distinguevano per un innato senso di sacrificio, di soddisfazione nascosta. Atleti come Guti, Andrès Iniesta, Xavi Hernandez e Xabi Alonso hanno portato, nel giro di pochi anni, la Nazionale Spagnola alla vittoria dell’Europeo e del Mondiale, sancendo per la prima volta in assoluto un dominio totale del Fútbol iberico.
Cosciente della sua estrema visione di gioco, Guti si è completamente messo a disposizione della sua squadra, portando un introverso interagire in mezzo al campo, una bussola invisibile nel centrocampo dei Blancos. Il punto più estremo del suo modo di giocare avviene però nel 2010, il suo ultimo anno al Real Madrid, contro la squadra galiziana del Deportivo La Coruña.
Al trentanovesimo del primo tempo una ripartenza del Real Madrid mostra le carenze difensive della squadra di casa, che viene letteralmente mangiata su tutti i fronti dai vari Benzema e Kakà; proprio quest’ultimo serve Guti che, completamente solo davanti al portiere avversario, decide di non calciare verso la porta, ma sceglie di servire il suo compagno di squadra Benzema con un colpo di tacco no-look. Game-Set-Match.
Le capacità di analisi dell’uomo Guti hanno preso nuovamente il sopravvento: lui si rende realmente conto della sua (Piccola) inferiorità di talento e del suo (Enorme) minore spessore mediatico, se messo a confronto con i Galacticos di Florentino Perèz; a lui questo però non interessa, perché Guti e il suo piede sinistro sanno che a volte bisogna anche uscire un po’ dagli schemi per poter essere ricordati.
Quest’ultima frase riprende proprio il Realismo magico, perché non è altro che un breve riassunto del significato del testo di un altro autore sudamericano, questa volta però argentino: Jorge Luis Borges. In Finzioni lo scrittore di Buenos Aires pubblica il racconto Le Rovine Circolari, dove scrive:
“Dopo nove o dieci notti capì con una certa amarezza che non poteva aspettarsi nulla da quegli alunni che accettavano con passività la sua dottrina, ma solo da quelli che osavano esprimere, a volte, una contraddizione ragionevole”.
Come Johann Cruijff, anche Guti veste una maglia numero 14, e come la leggenda olandese egli decide di seguire la sua fede, di comporre il suo inno alla gioia, di trovare la sua ispirazione per poter illuminare il cammino della sua squadra, per portare un Realismo che sa anche essere Magico.
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