Dieci anni fa Ferzan Ozpetek usciva con una delle sue più belle opere cinematografiche: Mine Vaganti. Un film brillante ed intelligente, ragionevolmente divertente e sorprendentemente commovente. Una commedia agrodolce elegante che ancora oggi fa riflettere
Più e più volte ho sottolineato la capacità innata di Ferzan Ozpetek di dipingere affreschi delicati e coinvolgenti, in cui i sentimenti e le paure delle persone si scontrano con la morte o la rivelazione. Il suo è un dono che ha messo a servizio del cinema, e per questo gliene sarò sempre grata. Mine Vaganti lo annovero tra i manifesti ozpetekiani più rilevanti, c’è tutto quello che di più bello il regista italo turco riesce a portare sul grande schermo: sotto trame, colori accesi, suoni, interpretazioni, tavole imbandite, scontri familiari, eccessi, empatia. Ormai ho perso il conto delle volte che ho visto il film, ma ogni volta ci sono sfumature ed emozioni nuove.
Mine Vaganti ha riscosso un successo planetario di pubblico e critica: e come non esserne d’accordo? Una pellicola corale che prova egregiamente a far cadere tutti i luoghi comuni insiti nella mentalità italica. Un lungometraggio che ci ha regalato l’interpretazione pressoché perfetta di Ilaria Occhini. Perché se ho amato, e amo, così tanto questo film è anche merito suo: della sua eleganza, del suo sorriso sincero, del suo sguardo profondo e dei suoi amati dolci.
Le “mine vaganti” nel tacco d’Italia
Ci troviamo in uno dei luoghi più belli e suggestivi della penisola, a Lecce, spettatrice di solitarie vicende umane. Ad accoglierci c’è una classica famiglia borghese italiana: i Cantone, proprietari di un fiorente pastificio nel conservatorio salentino. La storia inizia con Tommaso (Riccardo Scamarcio), il figlio minore che vive a Roma, tornato a casa con l’obiettivo di rivelare alla famiglia la sua omosessualità e il desiderio di essere uno scrittore. Tuttavia, durante una cena familiare, quando finalmente è deciso a fare l’annuncio, viene “battuto” sul tempo da suo fratello maggiore Antonio (Alessandro Preziosi), serio, affidabile e professionale, il classico figlio perfetto che confessa di essere gay.
Scioccati dalla notizia, il padre Vincenzo (Ennio Fantastichini), un canonico capofamiglia del sud, furioso ed ossessionato dal fatto che la città conosca il loro segreto, ha un malore e crolla a terra, mentre la madre Stefania (Lunetta Savino), donna soffocante d’altri tempi, decide di insabbiare la notizia e limitare il più possibile il “danno” causato dal primogenito. Nel frattempo la sorella Elena (Bianca Nappi), prende coraggio e rivela che aspira ad una vita migliore rispetto a quella di casalinga che i genitori hanno pensato per lei. A questo punto, date le circostanze, Tommaso si vede costretto a rivedere i suoi piani e prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia, al posto del fratello.
Ma come nei migliori film di Ozpetek, anche in Mine Vaganti ci sono delle storie nella storia.
In una di queste troviamo la nonna (Ilaria Occhini), donna eccentrica e misteriosa. In lei abitano opportunità mancate ed antiche e celate passioni. Lei è uno dei pezzi forti di Mine Vaganti, uno dei personaggi più belli, controversi e ben raccontati in un film, depositaria di tutti i segreti di una famiglia dalla mentalità obsoleta in cui lei si trova ad essere l’elemento centrale e più moderno, dispensando sagge lezioni di vita. Impossibile non menzionare, poi, la zia Luciana (Elena Sofia Ricci), zitella folle ed egocentrica con mille rimpianti alle spalle, testimone dello scorrere del tempo e delle vite delle persone care intorno a lei.
In uno scenario del tutto naturale, Tommaso viene inserito dal padre in quello che concerne l’attività familiare ed i suoi conseguenti problemi. Nella vicenda, infatti, si inserisce Alba (Nicole Grimaudo), figlia del Commendatore il quale strige un’alleanza con Vincenzo per il bene del pastificio. La ragazza, che nasconde, anche lei, vicissitudini passate, diventa amica – e un po’ di più – di Tommaso. Tra i due nasce un’intesa intima, facendo apparire – per lo spettatore che conosce la verità – il rapporto tra loro confuso, soprattutto quando da Roma arrivano gli amici ed il compagno di lui. Un’amicizia che avrà un finale aperto.
Le conseguenze del terremoto emotivo a cui è sottoposto Tommaso ci rivelano che il conformismo e il tradizionalismo che governa da anni la famiglia Cantone non riesce a controllare la vera natura dei suoi componenti. Tanto che, nel mentre i genitori sono intenti nell’offuscare i pettegolezzi, l’arrivo dei quattro ragazzi romani riesce simpaticamente a rovinarne i piani. Il regista e il co-sceneggiatore Ivan Cotroneo rompono con maestria le convenzioni stilistiche con un diabolico tocco narrativo estasiante, un guizzo raro da vedere.
Infatti il finale, maestosamente agrodolce, tipico del genio di Ozpetek, che ci lascia senza fiato, è lo specchio di un film diretto con delicatezza e con un occhio attento alle sfumature dell’anima, destreggiandosi deliziosamente tra emotività e riflessione.
Un finale prestigioso, uno dei più belli e suggestivi che io abbia mai visto. Sicuramente il più bello degli ultimi venti anni. Perché è un autentico colpo al cuore, dove le parole nella lettera della nonna sanno di vita vissuta e verità assoluta.
«Chi lo sa se questi luoghi avranno memoria di me. Se le statue, le facciate delle chiese, si ricorderanno il mio nome. Voglio camminare un’ultima volta per queste strade che mi hanno accolto tanti anni fa quando tutti mi chiamavano “la toscana”. Voglio vedere le pietre gialle, tutta quella luce che ti toglie il respiro. Se le strade conserveranno il rumore dei miei passi.
La mia città, la città di Lecce, la devo salutare prima di partire. Ai miei nipoti Antonio, Elena e Tommaso lascio tutto quello che ho, ma le terre che erano di Nicola quelle voglio che sia Antonio ad averle. Devi tornare qui Antonio, perché è qui che appartieni, avrai la terra, la forza che vive quando noi moriamo. Tu Luciana avrai tutto quello che ti serve ma devi farti un po’ di coraggio, i ladri non devono passare per forza dalla finestra. Quella è pure casa tua. Voi, Vincenzo e Stefania, non c’è niente che potete fare per non amare Antonio.
La terra non può volere male all’albero. Tommaso, scrivi di noi, la nostra storia, la nostra terra, la nostra famiglia, quello che abbiamo fatto di buono e soprattutto quello che abbiamo sbagliato, quello che non siamo riusciti a fare perché eravamo troppo piccoli per la vita che è così grande. La mina vagante se ne è andata. Così mi chiamavate pensando che non vi sentissi. Ma le mine vaganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scombinare tutto, a cambiare i piani».
Il tutto è contornato dalle musiche vintage di Paolo Catalano che ricordano i suoni e le atmosfere degli anni ’60, compresa 50 mila lacrime di Nina Zilli, che fa da colonna sonora al balletto di Scamarcio, regalando al pubblico una delle scene più belle ed iconiche del cinema italiano. Un altro grande pregio di Mine Vaganti viene dato dal direttore della fotografia Maurizio Calvesi, in cui ha la capacità di raccontarci il tallone d’Italia attraverso un piccolo formato brochure per sequenze. Un panorama mozzafiato in linea con un dramma familiare in cui le apparenze sono e dicono (forse) tutto.
Mine Vaganti è dolce e inquietante allo stesso tempo, un film che palleggia tra commedia e drama. Un piccolo gioiello di genere, dove i temi della famiglia tradizionale, delle conflittualità generazionali e delle dicerie di paese che ne conseguono, vengono fuori in maniera sconcertante.
E’ una opera sulla sensibilità e sulle diverse forme d’amore: da quelle insipide a quelle genitoriali, da quelle appassionate e coinvolgenti a quelle mai dimenticate.
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Mi è molto piaciuta la tua lettura del film, che non posso non sposare in pieno.
Brava
Dio come è scritta bene… Il film è molto bello, ma la recensione di più… Giuro che in 46 anni è la prima volta che ho avuto la pelle d’oca leggendo una recensione di un film ed è la prima volta che lascio un commento… questo sito lo devo tenere d’occhio!