Ratched è una delle ultime serie Netflix, nata dall’idea del regista Ryan Murphy. Il lavoro, fitto di charme, intrighi e segreti, è stato presentato come una sorta di prequel sull’infermiera Ratched, il personaggio iconico e sadico del cinque volte premio Oscar Qualcuno volò sul nido del cuculo del 1975.
Tutto è nato dal romanzo del 1962 di Ken Kesey che fu di ispirazione per l’adattamento cinematografico di Miloš Forman con Jack Nicholson. Gli 8 episodi raccontanti da Ryan Murphy ripercorrono le origini di Mildred Ratched, portando la narrazione indietro di sedici anni rispetto a Qualcuno volò sul nido del cuculo. La serie, narrata nelle giuste dosi, potrebbe appartenere benissimo ad un capitolo di American Horror Story.
Nonostante alcune pecche di sceneggiatura, la storia non vacilla, cammina bene dall’inizio alla fine, regalando notevoli colpi di scena in ogni episodio. La lussuria, l’invidia, l’oppressione e la violenza sono tutti temi che si palleggiano nel corso delle puntate.
Come avvenuto per Hollywood, Murphy decide di ambientare la serie negli anni Quaranta, nel clima socio-culturale statunitense del 1947. In pratica ci troviamo nel solco della Golden Age, costituita da una società conservatrice che si opponeva strenuamente all’aborto, all’eutanasia e ai rapporti omosessuali, e incentivavano politiche generose nei confronti della famiglia, considerata cellula fondamentale della società.
L’inizio di Ratched non è affidato alla protagonista, bensì ad un piano sequenza strettamente hitchcockiano: un giovane di nome Edmund Tolleson (Finn Wittrock) uccide brutalmente quattro sacerdoti in California. Da qui ci rendiamo conto che la visione dell’opera non è una passeggiata di salute ed è vietato distrarsi anche solo per una manciata di secondi. Dopo gli omicidi, Edmund viene trasferito in una struttura psichiatrica all’avanguardia, gestita dal nervoso e irascibile dottor Richard Hanover (Jon Jon Briones) e supervisionato dalla diffidente capo sala Betsy Bucket (Judy Davis).
La struttura sanitaria è un ex centro termale di riposo per ricchi, il suo arredamento lussuoso e l’ambiente apparentemente sereno contrasta nettamente con i suoi eventi inquietanti e macabri che si susseguono nel corso degli 8 episodi. Il Lucia State Hospital, inoltre, per sopravvivere, cerca disperatamente di ottenere dei fondi dal governatore della California Wilburn (Vincent D’Onofrio), per questo motivo intendono curare Edmund per portarlo come esempio alla nazione.
Ed è in questo ambiente, avvolto da passati difficili, segreti e bugie, che compare Mildred Ratched (Sarah Paulson). La donna presenta un curriculum invitante, dato che ha fatto esperienza come infermiera durante la guerra. E, nonostante i dubbi e le perplessità mostrate da Bucket, Ratched riesce a ingraziarsi il direttore ed entrare a far parte del personale dell’ospedale psichiatrico. Ma nella sequenza finale del primo episodio scopriamo che il suo interesse per la clinica Lucia non è disinteressato come poteva sembrare all’inizio e che le ragioni per cui si è presentata alla struttura sono più personali di quanto possiamo immaginare.
Altre sottotrame convergono con questa narrazione:
La crescente attrazione di Mildred per la portavoce del governatore Gwendolyn Briggs (Cynthia Nixon); la relazione di Edmund con Dolly (Alice Englert), un’aspirante infermiera; una voglia di libertà che coinvolge due pazienti lesbiche presso la struttura; i tentativi del dottor Hanover di curare Charlotte Wells (Sophie Okonedo), una paziente con disturbo di personalità multipla; e la vendetta di un’ereditiera nonché enigmatica signora Osgood (Sharon Stone) che vuole il dottor Hanover morto per aver reso invalido suo figlio Henry (Brandon Flynn).
Tutte queste storie, prettamente al femminile, sono legate da un fil rouge avvincente e da un approfondimento psicologico non scontato.
La rappresentazione dei trattamenti barbari come lobotomie e idroterapia – che una volta erano in voga per trattare la malattia mentale – è la vera parte horror di questa narrazione, non solo dalla crudezza con cui vengono mostrati, ma anche perché viene sottolineata la disumanizzazione con cui i pazienti psichiatrici erano trattati: dal disturbo da stress post-traumatico all’omosessualità.
Quella sensazione claustrofobica di un sistema sanitario basato su procedure mediche invasive e irritanti agli occhi dello spettatore è rafforzata dall’uso pesante ed incessante della colonna sonora. La partitura musicale è forte, imponente, urlante, generatrice di ansia continua che ben si sposa con la visione dello spettacolo.
Sarah Paulesen è perfetta nel mostrarsi ora gelida e manipolativa, ora dolce e compassionevole a seconda dei contesti. E’ stata capace di fornire una dignità dell’inquietante, di portare lo spettatore a provare empatia per uno dei personaggi più cruenti del cinema, facendola apparire non solo carnefice ma anche vittima di un passato ingombrante che la perseguita.
Ma la parte più bella e spettacolare di Ratched è l’impronta di Ryan Murphy che si conferma un gigante dell’estetica e della fotografia, un maestro della serialità contemporanea. Il suo reinventare il passato, parlare del presente e immaginare un futuro è incisivo.
I grandi set rococò dalle luci calde, i colori scelti a seconda dello stato emotivo di un personaggio, una profusione di pastelli, i costumi impeccabili, le cornici interne ed esterne splendidamente costruite, la giustapposizione di horror e lusso, una quantità di sequenze davvero esagerate e sopra le righe sono tutti ingranaggi di una macchina che funziona magnificamente. Peccato solo per una sceneggiatura, a volte, troppo confusa, dove risulta spesso difficile stare dietro ad ogni vicenda.
Per concludere, in Ratched ritroviamo un senso dell’estetica e della cara vecchia suspense che era propria delle grandi produzioni di Hitchcock.
Il lavoro ha un grandissimo potenziale sfruttato con prodezza e maestria. E’ uno spettacolo che si rivela inquietante, disturbante e grottesco. Una piccola perla nel catalogo Netflix, costituito spesso solo da prodotti riempitivi.
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