Asteroid City di Wes Anderson: recensione

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Asteroid City è il nuovo film del rinomato cineasta Wes Anderson, già autore, fra gli altri, di Grand Budapest Hotel e l’Isola dei Cani.

La procellosa onda lunga del lockdown ha colpito anche nel cinema, ed ha colpito in pieno, come uno tsunami, Wes Anderson. Asteroid city è il nuovo film del regista – autore statunitense, arrivato a due anni di distanza da The French Dispatch.

L’ambiente di reazione e la stechiometria sono gli stessi, in Asteroid City, rispetto a quanto già espresso in lavori come Grand Budapest Hotel o Il treno per Darjeeling: mescolare dieci moli di cast hollywoodiano d’eccellenza, affidarsi ad un’estetica ben caratteristica – di colori pastello e fumettosa -, alle colonne sonore di Alexandre Desplat e lasciare che i professionisti svolgano il proprio dovere.Anni ’50, deserto del Nevada, tempo di test nucleari e corsa allo spazio. In questo remoto angolo d’universo, giace la trista cittadina chiamata Asteroid City, che vanta come unica attrazione turistica, per l’appunto, la meteora – non l’asteroide! – ivi caduto e conservato. Un monumento sacro quanto la pietra nera per l’Islam, cui l’intera cittadina ne è Kaaba. Molti sono i personaggi che affollano il paesino, facendone crescere impetuosamente la popolazione ed occupando tutti i bungalow del motel di Steve Carrell. Un gruppetto di genitori di bambini prodigio, giunti ad Asteroid City per il ritiro di un premio farlocco per la miglior invenzione di un teenager: il Junior Stargazer. Padre di uno dei bimbi prodigio (Woodrow e Augie Steenback, rispettivamente, Jake Ryan e Jason Schwartzmann nella realtà), Augie, fotografo di guerra, è padre poco presente riportato alla realtà dei fatti dalla morte della moglie Margot Robbie) ma che si consolerà rapidamente con l’attrice (anch’ella madre di bimba prodigio), Midge Campbell (Scarlett Johansson). Fra gli altri, coloriti personaggi, figurano Stanley (Tom Hanks), il suocero di Augie, e la dottoressa HickenLooper (Tilda Swinton, immortale), quest’ultima unica figura di riferimento per tutti i ragazzini abbandonati dai genitori in quel caldo sole d’agosto del deserto.Dall’altro lato della telecamera, laddove Asteroid City è solo una serie TV in corso d’opera – gli Occhi del Cuore, ma con budget più alto -, abbiamo il tristo sceneggiatore maledetto della stessa, Conrad (Edward Norton), il presentatore del contenitore televisivo in cui Asteroid City è trasmessa (Bryan Cranston), nonché un terrificante, reduce da The Lighthouse, Willem Dafoe a interpretare un sorta di demone della buona recitazione (se in senso benigno o maligno, non è dato sapere).

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Sono molti i temi trattati da Asteroid City, nella sceneggiatura di Anderson stesso e di Roman Coppola. Innanzitutto, la quarantena: evento che tutti abbiamo vissuto, e le cui conseguenze sulle interazioni umane, di persone costrette a condividere lo stesso spazio per un tempo indefinito, sono sempre interessanti. Tanto più che tale imposizione proviene dallo stato, da quel governo tanto lontano da Asteroid City: evidentemente, i due scrittori non hanno apprezzato particolarmente (e chi l’ha fatto?) le politiche draconiane attuate durante le varie ondate di SARS-CoV-2. Le minuscole dinamiche di potere, rigidamente divise, nella narrazione, fra adulti che agiscono come adolescenti – sia Augie e Madge, che il resto dei genitori -, e fra i bambini/teenager: questi ultimi, fra invenzioni scientifiche e curiose curiosità, non trovano mai tempo per annoiarsi. Una velata critica alla boria e alla scarsa capacità di divertirsi, oltre che di reinventarsi o di passare semplicemente del tempo con sé stessi, di molti giovani adulti moderni: un horror vacui sommerso nella società che i lockdown hanno riportato alla luce da scavi archeologici dimenticati. Il fantomatico, curioso alienetto, che decide di improvvisarsi ladro della meteora, cos’altro è se non un casus belli narrativo, un espediente per, poi, parlar d’altro? Un deus ex machina classico, euripideo? In tal senso, Asteroid City strizza l’occhio, con l’evidente traforo attuato nella quarta parete, ai costrutti basilari dell’arte teatrale prima e cinematografica poi: le spaventose improvvisazioni degli attori, sotto la direzione del demone Dafoe, altro non sono che la potente risposta vitale ai mesti e annoiati adulti in Asteroid City. Divertirsi, divertirsi sempre, interessarsi anche alle cose più sciocche ed inutili: è questo, forse, il messaggio nucleare fondamentale di Asteroid City.

Asteroid City di Wes Anderson: recensione 1

Saranno i ragazzini a sovvertire l’ordine costituito dagli adulti, in Asteroid City: l’ordine costituito, nella persona del Generale (Jeffrey Wright) che ha pensato che mettere sotto chiave le giovani menti più brillanti degli USA fosse abbastanza – miccia che riporterà in vita anche i loro genitori, afflitti dalla vita, ma che si ritroveranno all’improvviso con uno scopo fra le mani: distruggere tutto, ma divertendosi. Film graziosa realizzazione, nella scenografia accuratissima che caratterizza i lavori Andersoniani, Asteroid City è sì un successo al botteghino, ma non avvicinerà altri cinefili allo stile del regista: sfiorando tanti temi complessi, seppure con animo leggero, Asteroid City risulta scarsamente calibrato sul piano della fruibilità letteraria, in quanto tende a far ubriacare lo spettatore, sia in termini di metafore da risolvere che di sottotrame e differenti facce da ricordare. Con un cast grande come ne Il Ponte sul Fiume Kwai, il numero di star in Asteroid City è francamente impressionante e, se possibile, anche vagamente dannoso al prodotto finale. Che è, per l’appunto, digeribile in piccole dosi. La creazione migliore del film, e punta di diamante del cast, è, però, il personaggio di Scarlett Johansson. Attrice di successo ma inutilmente maledetta – e che riversa tale falsa necessità sul sofferente Augie – professionista che finge depressione, madre di scarso amore per la figlia troppo intelligente, salta fra realtà e finzione senza mai cambiare il proprio essere: come ne Il treno per Darjeeling, Anderson affida alle due rotaie le scene di cambiamento, e affida invece a Edward Norton, come fece Inarritu in Birdman, il ruolo di tragico portiere in palazzi immaginari – e, concedetemelo, il tutto è molto Pirandelliano. Maschere ben truccate che vengono improvvisamente tolte senza un perché, come nel caso del dimenticabilissimo personaggio interpretato da Adrien Brody (chi, vi chiederete?).

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Eccolo.

La difficoltà di digestione, nonostante la dolcezza della Johansson come un liquore alle prugne dopo un pasto a base di peperoni, si incontra anche, nel lungo periodo, nella scenografia stessa: l’idea della case delle bambole è tenera ed originale, ma a tratti stucchevole ed non strettamente necessaria, costringendo lo spettatore a fingersi bambino pur essendo quarantenne per apprezzare i colorati distributori automatici di bibite e nelle peculiari affermazioni macchiettistiche dei personaggi (“I love gravity”, dice uno dei bambini geniali ad un certo punto).

Asteroid City è, volontariamente o meno, la sublimazione di Anderson ad Anderson stesso: è John Malkovich che entra nella testa di John Malkovich e vede John Malkovich al posto di ogni essere umano; è ripieno come un tacchino di cose a caso, effetti ed affetti e sottotrame che si perdono come acqua nella sabbia del Nevada, e lasciando un senso di inesplicabile vuoto al fruitore. Come se ci si sentisse ancora assetati dopo aver bevuto.

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Non dubito, però, che per i fan di Anderson, abituati alle lattine multicolore e alle strane misture rutilanti della sua estetica, ciò sarà un problema.

Giulia Della Pelle
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