Da dove vengono le divinità antiche?
Zeus, e tutti i suoi figli: Apollo, Minerva, Venere. Gli Olimpi, tutti, figli a loro volta di un titano. Già in un indimenticabile episodio della serie classica di Star Trek, “Who Mourns for Adonais?”, veniva postulato che, effettivamente, gli Olimpi fossero semplicemente appartenenti ad una razza umanoide che aveva precocemente scoperto il viaggio interstellare nonché la vita eterna, soccombendo poi sotto i tremendi colpi della loro stessa tristezza.
Sebbene non abbia goduto di una scrittura eccelsa, l’intuizione di Roddenberry, Ralston e Coon fu geniale: mescolare i miti dell’antichità classica – e non le bizzarre teorie Maya riguardo gli antichi astronauti – con i prodigi della fantascienza visionaria.
Il mondo di Battlestar Galactica, a sua volta reboot della serie-evento del 1979, è molto meno utopistico di quello disegnato nei roaring sixities: gli astronauti, anzi, i militari, che lo abitano, sono continuamente in guerra gli uni con gli altri, adorano gli Dei ma più con scaramanzia che con sincera devozione, e lottano unicamente per sopravvivere in un universo ostile che non si piega affatto al loro volere – in un’accezione ben lontana dal positivismo di Star Trek.
Quale fu, dunque, l’incipit della serie che ha caratterizzato la mia adolescenza? Perché, nel lontano 2009, io avevo a malapena diciassette anni, Megavideo era una certezza, e fra una versione di latino ed una disequazione gli esuli di Caprica mi emozionavano e facevano sognare mondi lontani e passati mai vissuti.
In un’epoca imprecisata, l’umanità è suddivisa in dodici colonie, tutte figlie degli esuli, chiamatosi come le rispettive nazioni, di un prodigioso pianeta natale, il misterioso Kobol. Tali colonie sono abitate a loro volte dai discendenti degli antichi coloni: Sagittario, Ariete, Gemini, Toro, Caprica, Acquario, Cancro, Leone, Libra, Pesci, Virgo. In quel tempo, la nostra razza godette di un’epoca di pace e prosperità: sebbene dimentichi della posizione di quell’antico pianeta, dal quale furono cacciati in seguito ad una guerra ormai obliata, prodigi della tecnica portarono ben presto al viaggio iperluce, alla scoperta di altri pianeti abitabili, e all’espansione economica di una società stratificata e complessa.
Sostanziale è, in Battlestar Galactica, l’assenza di razze aliene: l’umanità, contrariamente che nella fantascienza del passato, quale quella di Babylon 5, di Star Trek, di Andromeda, è fondamentalmente sola e isolata in un universo immenso e sconosciuto
Quella società tanto diversificata rimase, però, politeistica, adorando dunque le antiche divinità arrivate fino alla civiltà megalitica europea, dando nomi quali “Hera” e “Venus” alle proprie figlie. Come in ogni space opera che si rispetti, però, Battlestar Galactica ha il suo via col più canonico dei movimenti: la rivolta delle macchine dalla mano dell’uomo.
I Cyloni, infatti, sono una creazione degli umani: schiavi bipedi utilizzabili per i lavori più pesanti, per la prostituzione, per essere, semplicemente, degli strumenti che ne semplifichino la vita nell’edonistica società caprichiana, la principale colonia nella quale il loro utilizzo prese piede. Una lunga e sanguinosa guerra, analizzata nel prequel Caprica, ebbe luogo circa sessant’anni prima degli eventi del 2003. I Cyloni fuggirono dalle Dodici Colonie, stabilendosi su una loro Terra, ed evolvendo neanche tanto lentamente (nota di colore: i più appassinati coglieranno le palesi citazioni che la saga di Mass Effect, per ciò che concerne la guerra fra Quarian e Geth, ha svolto). La summa del certosino lavoro delle macchine è, infatti, rappresentata dai “lavori in pelle”: otto (ma tecnicamente sette…) modelli di esseri umani sostanzialmente indistinguibili da quelli fatti di carne, capaci di provare sentimenti profondi, di sanguinare, e, come si scoprirà nel corso della serie, anche di procreare.
L’Universo di Battlestar Galactica è, peraltro, caratterizzato da un certo nichilismo nietzschiano di fondo: gli esseri umani non imparano dai propri errori, e continuano a ripeterli.
Una guerra Cylone c’era già stata, ma l’umanità l’aveva, semplicemente, dimenticata. Fra i tanti esuli di Kobol, vi furono anche cinque scienziati sintetici, appartenenti alla prima generazione: coloro che avevano vissuto l’orrore della guerra nucleare fra uomini e macchine, che aveva poi portato alla diaspora dell’umanità. A lungo viaggiarono nello spazio sconfinato, dimenticando, di nuovo, il loro scopo. Risvegliandosi, sempre più raramente, più vecchi e più corrotti, più svogliati: più umani.
Data questa lunga premessa, gli eventi di Battlestar Galactica partono in medias res: 33 minuti, l’adrenalico incipit della miniserie trasmessa da Sy-Fy l’8 dicembre del 2003, il tempo che i rancorosi Cyloni e la loro flotta di astronavi, di macchine pensanti kamikaze capaci di rigenerare i propri nuclei di memoria, impiega a trovare, dopo ogni salto iperspazio, la flotta degli esuli umani. Perché ciò che resta delle Dodici Colonie, un tempo abitate da miliardi di persone, è un pugno di disperati: circa cinquantamila unità. I dodici pianeti: globi di fuoco caddero dal cielo, avvelenando la terra e il mare, incenerendo le splendide città, riducendo a polvere i corpi degli esseri viventi che le abitavano e ivi fremevano. Tutto ciò che resta è chi si trovava in volo spaziale: quindi, in gran parte, vascelli civili, traghetti fra le colonie, e una nave militare, il Galactica, in via di dismissione. Sì, perché vecchia, stanca e obsoleta signora, era destinata, la nave del generale (poi ammiraglio) Adama, uno splendido Edward Olmos, a diventare un museo. Su di essa si svolge quasi tutta l’azione della serie: su di essa sperimentiamo come l’improbabile Laura Roslin (Mary McDonnell, un’invecchiata Alzata con Pugno), sottosegretaria all’istruzione, divenga il presidente delle Dodici Colonie in quanto ultima esponente del governo in vita. E degli amori e dei lutti di Kara Thrace (Katee Sackhoff), che ha indubbiamente contribuito a formare, col suo personaggio mascolino e sessualmente libero, un’intera generazione di giovani donne, delle piccole invidie e della meschinità del geniale quanto limitato scienziato Gaius Baltar (James Callis), e dell’eroe omerico Lee Apollo Adamo (Jamie Bamber), figlio dell’ammiraglio. Attorno a questo nucleo gravitano umani e nascosti cyloni, in atmosfere soffocanti, in perenne mancanza d’ossigeno e di acqua, di cibo, di carenza di medicinali, di epidemie, di sovraffollamento, di rivolte, di culti improbabili, di shell-shock, di droghe, di stress estremo.
Battlestar Galactica è sostanzialmente un dramma tremendamente umano, che ribalta, per la prima volta l’epitome tipica del conflitto uomo-macchina: le macchine che non desiderano affatto sostituirsi agli uomini o imitarli, ma ad essi si sentono superiori e come tali capaci di abbracciare l’infinità dell’universo, tuffarsi nelle stelle di neutroni e sentire il calore delle supernovae. Che comprendono perfettamente la piccolezza delle nostre vite, che sanno amarci nella nostra imperfezione – Numero 6, unico amore (ricambiato) di Gaius Baltar, è un potente esempio dell’incolmabile abisso fra le due razze, i cui lembi sono uniti da una fragile cordicella – ma che non sono interessati ad apprezzarla se non a scopo puramente scientifico. Tanto quanto noi, banali umani, guardiamo un formicaio in miniatura.
Oltre che umana, però, Battlestar Galactica fu un prodigio di tecnica realizzativa e di regia. Vincitore di Emmy per sceneggiatura e regia, i creativi di Sy-fy decisero di affidarsi a quella vecchia gloria che fu Ronald D. Moore per il design degli interni del Galactica, ossia una nave che ai nostri occhi sarebbe dovuta apparire come futuristica, ma un relitto d’epoca per la vicenda narrata: un galeone gigantesco e pesante, poco manovrabile, ma efficace. Efficaci sono anche gli effetti speciali, che, in un’era in cui quelli di Matrix sono invecchiati più che male, i voli dei Viper di Battlestar Galactica risultano credibili quasi vent’anni dopo: dinamismo ed azione, concitazione, regnano sull’ambiente che, sebbene di sfondo grigio militare, è coloratissimo d’adrenalina. La regia dei numerosi mestieranti che si sono avvicendati nel corso delle quattro stagioni è rimasta documentaristica, anzi, naturalistica: statica, mai invadente, fissa sui personaggi, creature desolate in un universo vuoto e che strepitano per sopravvivere, muovendosi su un palcoscenico costruito solamente da loro. Ad essa fa eco la colonna sonora di Bear McCreary: sperimentale ed inusuale, è diversificata stagione per stagione, e si avvale di numerosi strumenti più o meno esotici, quali oud, flauti traversi e tamburi orientali. Chicca ne è la cover arabeggiante di All Along the Watchtower, nell’interpretazione più di Hendrix che di Dylan.
Battlestar Galactica, sebbene nella mole di materiale rilasciato (film TV, oltre alla serie principale, ed un numero incalcolabile di episodi web), rimane una serie moderna.
Più compatta di Lost, ma con la cura dei dettagli degli attuali lavori Netflix e HBO, dialoghi non banali quanto ben calati nel contesto trattato di guerra, vera e del terrore, sotto il perenne sospetto che l’altro sia un nemico nascosto sotto pelle umana, ed emergenza umanitaria, e in grado di mostrare con spietata sfrontatezza temi quali malattie mentali, breakdown emotivi, rivolte, nazionalismi, totalitarismi religiosi: qualcosa che una serie sci-fi non è stata più in grado di fare, in sole quattro stagioni.
Perché Battlestar Galactica ancora non ha eguali nello scifi moderno – forse solo The Expanse può sperare di scardinarne il titolo.
Così diciamo tutti!
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