This Must be the Place: il Sorrentino più ingenuo di sempre

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This Must be The Place è un film del 2011 di Paolo Sorrentino, regista premio Oscar per La Grande Bellezza, interpretato da Sean Penn e Frances McDormand, premio Oscar per Tre Manifesti a Ebbing, Missouri.

Ricordo bene quando vidi This Must Be The Place: c’era nell’aria uno di quei virus infidi, che si annidano nell’apparato digerente e ti impediscono di tenere nello stomaco qualcosa che sia diverso dai succhi gastrici.

“Non so cosa, ma qualcosa mi ha disturbato.”

Era il 2013, due anni dopo l’uscita del film – possiamo dirlo, fra i meglio riusciti – di Paolo Sorrentino.

Perché, nella vasta filmografia di Sorrentino, vi parlo proprio di This Must Be The Place? Perché è musica. La musica è sì, sempre stata fondamentale nella poetica del regista, fino alle contaminazioni di Nada in The Young Pope, ma mai come nel film co-scritto con un bravissimo Sean Penn. Non per altro, Cheyenne, il triste protagonista, è una rockstar dimenticata: un fossile vivente, nei suoi capelli tinti di nero come Robert Smith e quel rossetto così retrò, così anni ’80, epoca gioiosa che nessuno ricorda di aver mai vissuto nella realtà. This must be the place, dei Talking Heads. Non degli Arcade Fire, attenzione.

Cheyenne è depresso. Vive a Dublino, ma distante sia da Bono Vox che da Enya, la moglie (Frances McDormand), vigile del fuoco, che rischia la vita mentre lui è occupato a giocare in borsa, se lo fila pochissimo. Non ha neppure il cellulare. Una conversazione con l’ex leader dei Talking Heads e brillante compositore, David Byrne (recentemente tornato sulle scene con American Utopia),che è uno dei punti più alti del film e che si tiene a trasbordo già avvenuto, lo deprime ancora di più. Il poliedrico artista è impegnato a far suonare un organo di cattedrale tramite dei cavi tesi, mentre Cheyenne – più confuso che mai – blatera a caso sulla sua frustrazione.

Cheyenne è logorato dal senso di colpa. Un po’ come accadde ai Blink 182, due suoi fan – delle sue “canzonette depresse con cui faceva un sacco di soldi” – hanno compiuto un gesto estremo ispirati dai suoi brani. Byrne, d’altro canto, nonostante abbia scritto Psycho Killer, non ha mai avuto fan uccisosi in suo nome.

Cheyenne è ebreo. Nessuno lo sa, ma è ebreo. C’è stato un tempo in cui un uomo, suo padre, con cui non ha a che fare da trent’anni, l’ha generato dai propri lombi e l’ha amato; quel padre, ora, sta morendo. Ma Cheyenne ha paura degli aerei: prende la nave per raggiungerlo a New York, e quando arriva, l’uomo è già morto. Il senso di colpa si acuisce, e, andando contro a coloro che dicono che coloro che attraversano il mare cambiano soltanto il cielo, non il proprio animo, Cheyenne si dà una missione, ispirato dal cugino: vendicare quell’uomo, con quegli orribili e volgari numeri ancora tatuati sul braccio.

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Ai tempi del Nazismo, ad Auschwitz, infatti, il padre era stato umiliato, torturato, costretto a sofferenze indicibili da una piccola pulce delle SS: Alois Lange. Al funerale conosce Mordecai Midler (Judd Hirsch), un cacciatore di nazisti professionale. Leggendo i diari di quell’uomo, di suo padre, Cheyenne impara a conoscerlo, nonostante i trent’anni di buio: tramite i racconti dell’inferno vissuto in Polonia. Cheyenne si mette così alla ricerca dei parenti di Lange, che nient’altro è se non un pesce piccolo.

Ed infine, ritrova il persecutore di suo padre, nascosto in una roulotte ai confini del mondo: sospeso su un ghiacciaio, stanco, secolare, mai pentito.

Tanto colorato in gioventù, tanto apatico in età adulta, Cheyenne scopre finalmente sè stesso nel realizzare quella vendetta – che, dal punto di vista di Sorrentino, è cosa buona e giusta. Eppure, nella sua molle conversazione, c’è una certa forza e coerenza che gli altri personaggi che incontra – i vari parenti di Lange, Byrne, la moglie, la nipote Rachel, Mordecai – non hanno. Inseguendo i disegni in un diario, Cheyenne riesce a colorare la sua vita. Quel cerone, quel mascara, ombretto, e rossetto, che spariscono dal volto, nascondevano una persona nuova.

Il sacro valore della vendetta è un tema ricorrente nella cinematografia: maestro ne è Park Chan Wook, regista coreano che con Mr Vendetta, Lady Vendetta, e Oldboy, ha compiuto l’immensa opera di rappresentare la sacralità cui lo sparito tempio di Marte Ultore (che ornava i fori imperiali, grande gente i nostri avi romani) era dedicato. Sorrentino non è da meno, anzi: ne consacra il valore catartico, creando un personaggio che tutto potrebbe avere dalla vita e tutto ha avuto, ma con le sue debolezze, i suoi vezzi (“io la sniffavo l’eroina, ho paura degli aghi”), che necessitava di una missione per imparare a vivere. La dolcezza della scoperta si rivela a Cheyenne dalle parole di un tatuatore, dallo sconforto della moglie di Lange, della nipote, ed infine nella pallida e tremula magrezza di Lange stesso. Un road movie umanista ed esistenzialista che, alla sua uscita, non è piaciuto quasi a nessuno.

La sceneggiatura, curata dal regista napoletano stesso e da Sean Penn, raggiunge grandi picchi di lirismo, in cui ogni scena è costruita per esserne una madre – per rendere il film, come poi effettivamente è diventato, iconico –  ma risulta talvolta un po’ troppo riflessiva, con un’eccessiva tendenza alla costruzione climatica, sacrificando l’equilibrio del racconto. Lo spezzettamento complessivo della rivelazione della personalità di Cheyenne, il complesso rapporto col padre e l’eterna sindrome di Peter Pan, può risultare piacere o detestabile a seconda del gusto personale: ci si può ritrovare nella sofferenza di Cheyenne, nella sua ricerca del tempo perduto e che mai più tornerà.

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This Must Be The Place è dunque un film tanto lento quanto ricco di improvvise accelerazioni – come la musica rock, a tratti molle, a tratti gioiosa: gli anni ’80. La fotografia di Luca Bigozzi è coloratissima e frizzante, e perfettamente adattata al momento narrato: deserto, ghiaccio, interni di case con fiorellini e broccati, pub, ricordando, nei pastelli e nei grotteschi, i florilegi di Wes Anderson. Nello zoom sulle guance paffute di un orfano amante del rock, nel pickup che brucia. La scenografia della talentuosa Stefania Cella – per la quale ha vinto un Nastro d’argento, fra i molti altri venti dal film – è puntuale e rappresentativa: le tappezzerie, l’oggettistica, le ambientazioni tutte, sono quasi un altro personaggio. Silenzioso, ma reale.

La colonna sonora di This Must be the Place, è, fra l’altro, una chicca. David Byrne ne detiene il merito, anche della composizione dei brani appartenenti alla fittizia band di Cheyenne.

In conclusione, per un neofita, This Must be The Place è un ottimo punto di partenza per approcciare la complessa poetica di Paolo Sorrentino: ingenuo, delicato, e profondamente reale nelle sue situazioni paradossali.

“Durante l’inferno, anche noi, dall’altra parte del filo spinato, guardavamo la neve. E guardavamo Dio. Una forma infinita che stordisce, bella, viva, e ferma. Che non ha voglia di fare nulla. Come certe donne che da ragazzi abbiamo solo sognato.”

Giulia Della Pelle
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