Dogtooth (in greco Kynodontas) è un film di Yorgos Lanthimos del 2009, che è approdato in Italia a distanza di undici anni.
Uno dei cani di Pavlov, alfine, apprese a salivare solamente al suono del campanello – nonostante il premio, il pezzo di carne, tardasse ad arrivare o non arrivasse affatto. Il cane di Ivan Pavlov aveva dunque acquisito un riflesso condizionato: era stato, dunque, educato.
Educati sono i figli di un anonimo, ricco, greco, che lavora in un’anonima, ricca, grande azienda: privi di stimoli esterni, i figli vivono e si comportano solo seguendo i condizionamenti paterni. Così come la madre, molle creatura priva di personalità.
Il capolavoro di Yorgos Lanthimos, del 2009, Dogtooth (in originale Kynodontas) è una minimale lezione di cinema: come spesso accade, lavorando per sottrazione, per semplicità, ma scegliendo soluzioni furbe e intelligenti, si riesce a creare una vera e propria bandiera – un cinema nascente, quello greco, che deve quasi tutto a Dogtooth, che fu, all’epoca, insignito del premio Un certain regard a Cannes.
Un equilibrio perfetto, un ecosistema autosufficiente, una grotta carsica isolata dal mondo da eoni, è la casa della Famiglia: piscina, grandi stanze soleggiate, ottimo cibo, musica, l’amore di mamma (Michelle Valley) e papà (Christos Stergioglou). Un ecosistema che, peculiare, come tutti gli isolamento insulari, vive di idiosincrasie: parole vietate, come autostrada, nella definizione della Madre diviene un materiale per ricoprire i pavimenti. Curiosi intrattenimenti, anestetici usati come ricreativi. Abiti perfettamente puliti, colori pastello, alcuna parola scritta a sozzarli. Una vita sana, fatta di sport, relax, cibo, sonno.
È la vita di un cane domestico quella che vivono i figli (la maggiore Angeliki Papoulia, che seguirà Lanthimos come coprotagonista nell’acclamato The Lobster, l’esordiente Maria Tsoni, purtroppo venuta a mancare a neanche trent’anni, e il maschio Christos Passalis), i bambini, abbondantemente adulti, di mamma e papà: incapaci di normali conversazioni, impauriti dai gatti – creature sconosciute che possono invaderne il piccolo reame – preoccupati per ed affezionati a quel fratello misterioso che vive al di là del muro di cinta di giardino. Mura altissime, impenetrabili, colonne d’Ercole oltre le quali hic sunt leones o solo giganti pronti a divorarli.
Non hanno una fervida fantasia, i bambini, perché essa mai è stata stimolata; non hanno interessi fuori dal loro noioso vissuto; non conoscono altro tipo d’amore se non quello fatto di prove d’amore per il padre e la madre – assurde performance di resistenza subacquea, gare di ballo – fatto anche di punizioni corporali cui non sanno difendersi.
Lanthimos confeziona dunque un lavoro di spettacolare antitesi alla pedagogia, l’estremizzazione dell’amore genitoriale: esso diviene controllo, ricatto morale (sebbene di precetti morali ai Figli ne siano impartiti ben pochi), mai apertura, mai stimolo, mai accettazione, mai fantasia, mai capacità decisionale.
La morte del libero arbitrio è rappresentata, dunque, fra quelle mura assolate: uno status quo placido, cui, senza averne i mezzi, i figli non sanno ribellarsi.
Come bambini che mai altro hanno conosciuto se non la violenza, la guerra, la cattiveria. Come cuccioli di cane il cui unico istinto, mai toccato da mano gentile, è di correre e uccidere nelle lotte clandestine.
Novelli riti d’iniziazione, menarca corporeo, i figli saranno adulti e potranno lasciare la casa (solo con l’ausilio dell’automobile) quando cadrà un canino – un dogtooth.
Fortemente maschilista, dittatoriale, che instilla dubbi e paure laddove non può usare la violenza, il Padre si rende conto che l’unico figlio maschio ha necessità di copulare: a tal fine permette – sconvolgendo l’ecosistema come fa un alieno invasivo, un’alga tropicale nel Mediterraneo – a Cristina (Anna Kalaitzidou), una dipendente della sua azienda, di accoppiarsi con lui. Ma Cristina è pericolosa, gioca con le figlie, insegna loro l’arte del sesso orale, e, infine, presta alla maggiore – la più bella, la più ribelle – videocassette di film Hollywoodiani. Flashdance, what a feeling.
Filosoficamente, Lanthimos rifiuta la maieutica platoniana riportando al centro dell’evoluzione umana il ruolo della civiltà e della socialità; rifiuta i simboli atavici – li distrugge, assieme alla figlia maggiore che si colpisce il canino destro con un manubrio da palestra – e decostruisce la famiglia, intesa come base della società occidentale. Superata, noiosa, reclusiva, poco più di un branco di cani umanizzati. Bulgakov ci aveva già pensato cent’anni prima con Cuore di Cane, ma la lucidità di Lanthimos è espressione dei tempi che correvano nel 2009.
In tal senso Dogtooth è una critica a sistemi economici, disgraziatamente ancora attuali a distanza di undici anni, basati sulla punizione, sull’isolamento, sul protezionismo: nel pieno della crisi economica del 2009, Lanthimos ha creato una doppia allegoria – sia pedagogica che economica – della Grecia, come figlia dolente e maleducata di un’Europa ricca che si arroga il diritto di educarla – come un cane di Pavlov. Lontana è invece la narrazione proposta da tanti fatti di cronaca famosi, quali il caso Fritzl o Alvarez.
Una menzione d’onore merita il logo proposto nella locandina originale del film: tre linee che formano delle strutture specchiate – chirali – simili a denti di cane, o, per i più addentro al mondo scientifico, degli spettri di dicroismo circolare: fenomeni che, per l’appunto, descrivono l’effetto dell’ambiente su una certa molecola che viene presa ad indagine, esattamente come Cristina sconvolge il mondo della famiglia. Oppure, lo si può leggere – nella linea più alta e con l’anticlimax più basso – come la storia della blanda trasformazione che subiscono i tre fratelli durante la vicenda: emblematico è come il maschio, rappresentato dalla linea gialla, non subisca, in realtà, alcun tipo di crescita.
Tecnicamente parlando, Lanthimos propone una storia a salti, che, nel montaggio finale, sebbene si supponga segua linearmente il corso degli eventi, vive di ellissi e di un linguaggio cinematografico fatto di riempimenti, di attività apparentemente sciocche – balletti, gare di nuoto, tosature di prati, cani da acquistare, chiusi in gabbiette – ma che possiedono un grande equilibrio complessivo; nel comparto tecnico Lanthimos riunisce attorno a sé collaboratori che lo accompagnano tuttora nella Favorita (qui la nostra recensione), Yorgos Mavropsaridis al montaggio e Thimios Bakatakis alla fotografia, concorrendo a creare un linguaggio unico, fatto, appunto, di isolamento culturale e reale.
È un’enorme colpa che Dogtooth abbia impiegato undici anni ad approdare nel nostro paese: ora, di arte, di classici moderni, di spunti di riflessione c’è bisogno più che mai.
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