Il più grande progetto cinematografico del 2021 è stato, indubbiamente, Dune di Denis Villeneuve, prodotto da Legendary Pictures, uscito in Italia il 21 settembre.
Il regista, già rinomato per la sua interpretazione intimista della fantascienza classica – Blade Runner 2049, Arrival – stavolta si lancia nell’arduo compito di riportare sul grande schermo l’epopea di Frank Herbert, il cui primo volume, è, per l’appunto, intitolato, semplicemente, Dune.
Dune che si stagliano sull’orizzonte, scintillanti di una polvere rosso-dorato, che le accarezza come bruma secca; le lune illuminano di una luce gelida il paesaggio, ed un singolo topo delle sabbie saltella inconscio sul crinale di una montagna di sabbia. All’improvviso, un pennacchio di polvere si innalza in lontananza. Centinaia di metri di corpo di una creatura aliena, un verme, Shai’ Hulud, si avvicina.
Cos’è Dune, la spezia, il verme, e il machiavellico matriarcato che governa lo spazio conosciuto
L’epopea di Frank Herbert, già di per sé, non rispettava i canoni della fantascienza tradizionale. Un intelligentissimo stratagemma letterario gli aveva permesso di non scadere nei deliri sci-fi dei suoi contemporanei, e di evitare la necessità di realismo, e, allo stesso tempo, il tanto caro a Philip Dick tema dell’autorealizzazione – la scoperta di sé da parte di un’intelligenza artificiale; ciò perché nel terzo millennio dopo Cristo, in un periodo così lontano che l’umanità avrà anche dimenticato la sua casa iniziale, i computer non esistono. L’eresia Butleriana – così chiamata nel libro – ha dunque spinto l’umanità a cercare nuovi modi per sfidare i limiti del corpo fisico, e per viaggiare fra le stelle – per trovare, fra di esse, una rotta sicura. Finché su un anonimo, desertico pianeta, illuminato da una stella gialla, non è stata scoperta la spezia. Quei granelli rosso-dorato sulla superficie delle dune.
La spezia, sottoprodotto del metabolismo dei vermi delle sabbie, su Dune, chiamato Arrakis dai Fremen, unica popolazione indigena che lo abita, è ovunque. Permea l’aria. È una sostanza psicoattiva che permette di trascendere i limiti di spazio e tempo, e, per questo, usato dai navigatori della gilda spaziale, in enormi quantità, per trovare passaggi sicuri fra le stelle.
Sebbene la forma di governo dell’universo sia un impero, governato da Shaddam IV della casa Corrino, è in realtà un ordine pseudo-monastico/misterico di sole donne che, dall’ombra, prende le decisioni e guida l’umanità: le Bene Gesserit, portatrici di bene, di cui Lady Jessica, madre del protagonista, fa parte. Costei, però, ha osato contravvenire al voto di castità imposto: ha sposato un uomo, generato un figlio – un maschio. Nella speranza che, quest’ultimo, sia il prescelto: colui che guiderà gli umani verso l’età dell’Oro.
Chi controlla la spezia, controlla l’Universo: chi controllerà Dune?
Il libro, così come la versione di Villeneuve, estremamente fedele ad esso, si apre con la casa Atreides, di chiara discendenza greca, sul proprio pianeta natale, Caladan. A loro, dall’imperatore della casa Corrino, viene affidato il compito di sorvegliare su Dune e sul commercio di spezia, al posto della casa – loro cugini – che finora ha gestito il tutto, gli Harkonnen di Giedi Prime. Crudeli e sanguinari, sono comandati dal Barone Vladimir Harkonnen (un grasso e terrificante Stellan Skarsgard), e dai suoi eredi Beast Rabban e Feyd-Rautha. Quest’ultimo, vera e propria nemesi del protagonista Paul Atreides, era in origine interpretato da Sting; nella versione di Villeneuve tale personaggio è stato tagliato, per lasciare spazio alla crudeltà, quanto piuttosto ottusa, di Rabban, interpretato dal gargantuesco Dave Bautista.
Dal lato Atreides, nel manicheo mondo di Dune, abbiamo il golden boy Timothèe Chalamet a ricoprire il ruolo di Paul Atreides, che nella versione di Lynch fu di Kyle MacLachlan, mentre sua madre, Lady Jessica, è qui Rebecca Ferguson. Il duca Leto, personaggio senza macchia e senza paura, è interpretato da Oscar Isaac. Jason Momoa è invece l’eroico Duncan Idaho, capo dei pretoriani di corte, mentre il mentat di corte – un computer umano – è incarnato da Stephen McKinley Henderson. Un redivivo Josh Brolin è Gurney Halleck, mastro di spada di Casa Atreides, nel romanzo storpio e di sgradevole aspetto. Javier Bardem è, invece, Stilgar, un Fremen, mentre Chani, futura amante di Paul, è Zendaya. L’arbitro del cambio ed ecologo Leit Keynes cambia sesso ed è interpreta da Sharon Duncan-Brewster.
Cast dunque d’eccellenza, molto meglio di come fu per la trasposizione del 1984: siamo in presenza di attori affermati, che hanno dimostrato d’esser duttili e adattabili in ogni prova.
Come d’altro canto la sceneggiatura è firmata da grandi nomi: Eric Roth, autore di Forrest Gump e A Star is Born, Villeneuve stesso, e John Spaits, sul quale non riponevo molta fiducia dato il flop di Prometheus. La Legendary Pictures, sul comparto tecnico, non ha badato a spese: la maggior parte del film è realizzata in IMAX. La fotografia è del pluripremiato Greg Fraiser.
Come realizzare una space opera nel 2021?
La narrazione originale di Dune è lentissima. Scorre come magma che si raffredda, in alcuni punti si arena come capodogli sulla spiaggia; indugia in lunghissime descrizioni di affioramenti rocciosi nel deserto, dei pasti del barone Harkonnen, degli usi, costumi e incantesimi delle Bene Gesserit; cronache oniriche delle visioni di Paul, futuri che forse si realizzeranno. Vermi che si contorcono nella sabbia, denti lunghi metri che affiorano dal terreno.
La narrazione di Villeneuve è altrettanto lenta, ma manca del mordente di alcuni passi del romanzo, ossia i dialoghi mai banali. Il manicheismo presente nella materia originale è ancor più accentuato, nei discorsi dell’integerrimo Duca Leto, e nella bontà che trasuda da tutti i componenti della casa Atreides; anche al di là del confronto, ci si ritrova spesso a domandarsi se ci sia mai stato dell’intento di realismo nell’impianto da poema epico di Villeneuve. Le scene riguardanti gli Atreides sono calde e pieni di colori, pace e armonia; laddove appaiono gli Harkonnen, la fotografia si fa scura, liquida, sporca, morbosa, così come il design degli ambienti.
Dal momento che non esistono computer nel mondo costruito da Frank Herbert, l’umanità, con tutte le sue luci e ombre, è al centro: tale fulcro è rispettato in Dune, che lascia enorme spazio all’introspezione di Paul – alla sua rabbia verso la madre, e alla sua incapacità, tramutata poi in tacita rassegnazione, per la scoperta d’esser un abominio. La maternità è peraltro permeante, e presente con intensità: Paul, e Chalamet di converso, è prima di tutto figlio di Rebecca Ferguson, e l’intesa fra i due attori è palpabile. Cosa che non si può dire, della relazione appena accennata, fra il Duca Leto e Lady Jessica.
Una storia d’umani, di tradimenti, di crudeltà, dunque: ma non solo. Dune è anche e soprattutto un film d’azione, le cui scene di battaglia possiedono, al contrario dei dialoghi, un realismo eccellente. Chalamet ha già avuto l’onore di recitare ne Il Re, film Netflix su Enrico V, altra pellicola che si distingueva per la bellezza – e accuratezza storica – dei combattimenti all’arma bianca. Il mondo di Dune, infatti, non utilizza armi da fuoco, e i combattimenti avvengono alla vecchia maniera; il contrasto fra astronavi e armigeri, infatti, è una delle innovazioni portate da Herbert, adottate da Star Wars, e, infine, trasposte da Villeneuve e i suoi ancora innominati fighting advisors. Le battaglie assieme ai Fremen, allo stesso tempo, evocano visioni del Medio Oriente e dei combattenti dell’Impero Ottomano, ma in un’ottica da Mille e Una Notte.
Il valore pittorico e musicale di Dune di Denis Villeneuve
Fra i punti di forza di Dune figura indubbiamente il suo valore artistico, chiaramente prettamente pittorico. Le sequenze su Caladan riportano alla mente le highlands scozzesi, e la colonna sonora di Hans Zimmer – al suo meglio da molti anni, forse da Interstellar – ne fa da perfetto contraltare. Infatti, essa fa uso di abbondanti cornamuse e lied di ispirazione norrena, facendo assurgere gli Atreides, dunque, a eroi dell’Iliade nella rilettura svedese della guerra di Troia; i tumuli degli antenati, con il passaggio di consegne di potere da Leto a Paul, riportano ad un mondo antico pre-cristiano. Se da un lato, nelle sequenze acquoree, abbiamo molti rimandi ai lavori degli Impressionisti francesi e della pittura romantica – Caspar Friederich fra tutti, l’arte sacra è invece principale ispirazione per Villeneuve nelle sequenze più tragiche del film.
SPOILER
Il corpo immobilizzato del Duca Leto, infatti, è posto nella stessa posa del Cristo Morto del Mantegna, ed il personaggio, effettivamente, svolge un ruolo cristologico e sacrificale.
Le sequenze nel deserto, girate nel Wadi Rum in Giordania, di struggente bellezza, la spezia che volteggia nell’aria, possiedono un valore trascendente, come in tanta arte surrealista e modernista, in cui l’ambiente ostile si fonde con l’osservatore – Agnes Pelton, per citarne una.
Il design in Dune: finalmente un lavoro corale
Il design dei costumi e delle ambientazioni in Dune ha, dietro di sé, un lavoro enorme. Firmati da Jacqueline West e Bob Morgan, sono dei gioielli di funzionalità e idiosincrasia. In particolare, le tute Fremen corrispondono a quanto raccontato da Herbert stesso, e le divise degli Harkonnen rispecchiano un ideale gotico stilizzato, eccezionale all’interno dell’economia del film, ma che purtroppo va a rafforzare il manicheismo già presente. Arrakin, città di Dune, come concepita dallo scenografo Patrice Vermette (collaboratore di lunga data di Villeneuve), è un’oasi nel deserto, con mattoni di fango, che fonde l’estetica già nota nello sci fi – Tatooine? – con Ur dei Caldei o Babilonia; una città capitale di un deserto, con uno ziggurat a dimostrare il potere imperiale. Gli interni, che a Caladan, chissà, forse per evoluzione convergente, ricordano un po’ troppo la Roccia del Drago in Game of Thrones, ad Arrakin sono invece tappezzati di bassorilievi riguardanti l’acqua: carpe koi, mostri marini, dimostrazione di sprezzo verso la scarsità di liquido del pianeta. Non c’è però nulla di dissonante nel complesso realizzato: il comparto estetico scorre liquido, e non cozza mai con quanto narrato.
Un nuovo canone per la space opera?
Tirando le somme, si può dire che Dune di Denis Villeneuve sia un nuovo canone per la space opera? La recitazione, laddove sia possibile giudicarla, visto il numero di personaggi e la scarsità di possibilità espressive se non per Chalamet stesso, è ottima, ma Bardem, caratterista munifico e pregevole, spicca fra la folla. La telecamera di Villeneuve, d’altro canto, sebbene si tratti di una storia umana, come sempre, preferisce far parlare l’ambiente: come in Arrival il sintomo della solitudine della protagonista erano le gigantesche astronavi silenziose, in Dune la confusione fra passato e futuro si estrinseca in tempeste di sabba ed esplosioni, scene brevissime e spezzettate, campi larghi ed inquadrature perfettamente auree 2,39:1 – mai angolazioni, mai sbavature, mai distorsioni. C’è dunque poco di sperimentale, ma è un bene, trattandosi di un kolossal. Perché questo Dune è: un kolossal alla vecchia maniera, un Ben Hur. Che si nutre delle sue citazioni interne e delle sue scene madri. Rimaniamo, però, in sospensione di giudizio, in quanto la prima parte copre circa il 40% della storia iniziale. Aver portato, ad ogni modo, sul grande schermo, un progetto tanto ambizioso – sfidando David Lynch e sorridendo malignamente in faccia al povero Alejandro Jodorowski, il cui grande sogno era girarne la trasposizione – e di tale valore artistico è un compito che solamente un visionario come Villeneuve poteva realizzare: ha colpito nel segno. Nonostante i manicheismi, la narrazione granitica, e la voluttà epica della materia. Attendiamo l’uscita del secondo capitolo.
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