Avete presente qualche classico della letteratura di cui tutti conoscono la fine ma che comunque non esitano a cominciare a leggere?
Get back, il documentario di Peter Jackson sulle sessioni di prove e registrazioni che i Beatles tennero per la realizzazione delle canzoni che andarono a comporre i loro ultimi due album in studio, è come un grande classico della letteratura che noi vediamo scrivere pagina dopo pagina.
Immaginiamo Agota Kristof che scrive davanti a una telecamera i tre libri che compongono la Trilogia della città di K. Noi siamo lì che conosciamo la storia, quando l’autore (in questo capo McCartney e soci) abbozza i primi vagiti di quello che abbiamo imparato a catalogare come “classico immortale” noi siamo lì sui nostri divani che quasi vorremmo suggerire le parole. Siamo nei nostri salotti a gridare a John, George, Paul e Ringo di insistere sulla strofa di Get Back.
Ad un certo punto John Lennon abbozza qualche strofa di una canzone che ha intitolato “on the road to Marrakech“, la cosa passa in sordina, ma quella canzone diventerà Jelaous Guy, giusto per far capire la qualità compositiva del quartetto di Liverpool che in quelle sessioni del Gennaio 1969 si era riunito prima in uno studio di posa fuori Londra, e poi successivamente negli studi Apple di Savile Row per completare le registrazioni e le prove delle canzoni che dovevano comporre l’ossatorua di un album e di uno show dal vivo.
C’è un passaggio in cui il regista Michael Lindsay-Hogg, che doveva dirigere lo speciale televisivo davanti al pubblico, prova a spiegare a Ringo Starr che i Beatles in sostanza hanno il dovere morale di suonare dal vivo. «Non sto dicendo che lo dovete al mondo» ma è come se lo avesse praticamente detto. Quei giorni, documentati con dovizia di particolari sono un immenso documentario sul processo creativo e distruttivo allo stesso tempo.
Creativo perché si assiste alla genesi di capolavori che entreranno a far parte della storia della musica, brani come Get back, Let it be, Across the universe, solo per citarne alcuni. In particolare veder nascere, quasi per caso, Get Back è particolarmente emozionante. È il 7 gennaio, negli studi ci sono Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. John Lennon è in ritardo. McCartney prende il basso e inizia a strimpellare alcuni accordi che poi diventeranno quelli di “Get Back”.
Ringo Starr lo guarda attentamente mentre George Harrison inizialmente sbadiglia. Entrambi dopo si uniscono a McCartney, il primo battendo a ritmo le mani e il secondo con la chitarra. McCartney improvvisa anche il ritornello, con le parole che poi finiranno nel testo definitivo. Noi davanti allo schermo vorremo suggerire una strofa, perché come un libro che abbiamo già letto, appunto, conosciamo la storia e sappiamo che stiamo assistendo al miracolo.
Assistiamo però anche al processo di distruzione dell’entità chiamata Beatles. Questo documento visivo infatti è una sorta de “gli ultimi giorni dei Beatles”. All’epoca nessuno lo sapeva, o forse si, ma nessuno ancora ci credeva di sicuro che il concerto sul tetto degli studi della Apple sarebbe stato l’ultima volta che i quattro ragazzi di Liverpool avrebbero suonato insieme. Non a caso uno dei momenti di maggiore tensione delle quasi otto ore di documentario è il passaggio in cui George Harrison abbandona le prove. I lavori si fermano per tre giorni nei quali il quartetto prova a ricomporre la rottura, e in qualche modo almeno per quei giorni ci riesce.
Harrison non nasconde il suo desiderio che i Beatles registrino più pezzi scritti da lui e nella terza puntata dice anche chiaramente di voler realizzare un disco solista, per poter dare maggiore spazio alle sue canzoni. In questa frizione s’inserisce la posizione di McCartney che era a tutti gli effetti il direttore creativo tra i quattro. Di certo era quello che aveva più a fuoco la direzione artistica della band, non a caso è universalmente riconosciuto come uno degli autori migliori della storia della musica, ma il caso aveva voluto che anche Harrison e John Lennon avessero qualche discreta freccia al loro arco. Insomma, in questi termini, le spaccature erano più che probabili.
Ma oltre al lato puramente artistico credo che in questo documentario si racconti in modo molto chiaro e onesto la parabola personale di ogni uomo, rappresentato metaforicamente dai quattro di Liverpool. E così si pensa a John che incurante di tutto ha affrontato un mese di prove con Yoko Ono appollaiata costantemente sulla sua spalla, c’è Harrison che ormai era sempre più consapevole delle sue doti musicali e compsositive, c’era Paul McCartney in stato di grazia, Ringo Starr per quanto fosse accomodante non mncava di nascondere le sue velleità nel mondo dello spettacolo.
Si inizia un percorso insieme, in una band come in una comitiva di amici, poi il tempo passa e le persone cambiano, non diventano migliori o per forza peggiori, diventano semplicemente persone diverse. Per questo motivo quello che ieri andava bene oggi non ha più lo stesso sapore. E tutto questo, per noi che conoscevamo già la fine del libro, era in qualche modo drammatico.
Ma affezionarsi ai personaggi, si sa, è il primo peccato di ogni buon scrittore. Significa tarparne le ali, mortificarne la dignità, privarli della loro storia e della loro evoluzione. Per questo anche quando vediamo i Beatles posare gli strumenti e scendere dal tetto della Apple siamo felici, nonostante la tristezza che aleggia mentre ascoltano le registrazioni della loro esibizione, perché sappiamo che sta per cominciare non una, ma quattro storie diverse che a loro modo scriveranno altre pagine dei libri di musica e della cultura del novecento non solo musicale.
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1 commento su “Get Back, un grande romanzo sui Beatles e sulla storia di ognuno di noi.”
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