Al suo terzo film dopo The Childhood of a Leader e Vox Lux, il regista ed ex attore Brady Corbet porta in concorso a Venezia 81 The Brutalist, opera ambiziosa e affascinante premiata con il Leone d’Argento per la Miglior Regia. Girato in 70mm, con interpreti d’eccezione come Adrien Brody, Guy Pearce e Felicity Jones, The Brutalist è senza dubbio l’opera della maturità del regista, che qui firma forse il suo capolavoro.
Il brutalismo è una corrente architettonica controversa, sviluppatasi nel secondo dopoguerra e rivalutata poi negli anni, che predilige la funzione e la forza delle forme degli edifici rispetto all’estetica. Più che di brutalismo però, nelle quasi tre ore e mezza (più intervallo di 15 minuti con countdown) di The Brutalist si parla di brutalità: una forza quieta che inizialmente naviga sottotraccia e che acquisisce man mano significato e centralità, fino a essere urlata. È una storia questa densa e stratificata, che dagli anni ’40 e attraverso l’epopea del suo protagonista ci restituisce un affresco del Novecento vivido e spietato, a partire dal trauma generazionale della persecuzione degli Ebrei, dalla falsità del sogno americano e dall’oppressione del capitalismo.
L’epopea è quella di László Tóth (Adrien Brody), architetto ungherese formatosi nella scuola Bauhaus di Dessau, sfuggito ai campi di concentramento e pronto a rifarsi una nuova vita, anche partendo da zero, nella terra delle opportunità, gli Stati Uniti. Per farlo si affida inizialmente a un vecchio cugino, Attila (Alessandro Nivola), che con la moglie gestisce un piccolo negozio di mobili non proprio proficuo. Nuovo nome, nuova identità, lasciarsi alle spalle le proprie radici e ripartire da capo. Ciò che rimane del passato di László in Europa, oltre alle sue creazioni artistiche, sono la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy), che l’uomo vorrebbe portare con sé negli Stati Uniti. L’occasione si presenta quando a László e suo fratello viene commissionata una libreria per un ricco imprenditore e filantropo, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce): affascinato da quell’uomo e dalle sue creazioni, sconcertato che si sia ridotto a spalare carbone in un cantiere, Van Buren lo invita nella sua proprietà e gli commissiona un’opera colossale, un centro polifunzionale (biblioteca, palestra, auditorium e chiesa) in onore della defunta madre. Soddisfare i capricci del magnate diventerà per László non solo una possibilità di rivalsa (personale e non), ma una lotta contro sé stesso, contro i suoi traumi e contro le contraddizioni di cui si fa carico, che lo segnerà per sempre nell’anima e nel corpo.
Fino dal sue prime immagini, così misteriose eppure così familiari, è chiaro che The Brutalist lavori in modo eccezionale per ridefinire i suoi stilemi di riferimento: mentre in sottofondo risuonano le parole di una lettera amorevole e speranzosa di una donna (Erzsébet), un uomo (László) emerge dal buio e dalla confusione di corpi accalcati, si fa largo per raggiungere la luce di una possibile nuova vita; ad accoglierlo al suo arrivo negli Stati Uniti, in uno dei tanti ribaltamenti delle convenzioni classiche del film (qui letterale), la Statua della Libertà mostrata al contrario. Un’immagine già fortissima e densa di significato (più che il sogno americano, un incubo minaccioso e incombente), che ci presenta luoghi, personaggi e situazioni ambigue e contraddittorie, a partire dalla figura di László Tóth, genio dalla cultura immensa che però non può sfuggire ai suoi traumi e al suo malessere, ridotto a chiedere cibo in un ricovero per senzatetto e a farsi di eroina per placare il dolore di una ferita di guerra (o forse della guerra stessa).
“Nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo” è una delle frasi iniziali del film, perfettamente calzante soprattutto nel rapporto tra l’architetto e il suo mecenate. Van Buren si dice affascinato e stimolato dalle conversazioni con l’uomo, ma nell’apparente complicità dei due, che sembra sfidare anche la ben più manifesta reticenza degli altri membri della famiglia, e in particolare del figlio Harry (Joe Alwyn), si nasconde in realtà un profondo razzismo e classismo, e l’idea di un capitalismo che si serve dell’arte per i suoi scopi salvo poi rigettare e infine violentare nel buio la sua creatura nel momento in cui questa sembra sfuggire al suo controllo.
Architettura e cinema viaggiano insieme, entrambi costruiscono mondi e nuovi scenari, e non è difficile riconoscere nell’impresa titanica di László, le difficoltà incontrate nella lavorazione e la sua visione artistica in contrasto con le esigenze di produzione l’esperienza stessa di girare il film (frutto di numerosi anni di gestazione e vari problemi di cast e budget).
Brady Corbet confeziona un’opera tecnicamente magniloquente, in cui fotografia, scenografia e colonna sonora sostengono in ogni momento il racconto per portarlo avanti, e allo stesso tempo spesso ci dicono qualcosa in più, come quello che i personaggi pensano o non vedono. In uno dei primi dialoghi tra Van Buren e Tóth durante un ricevimento in casa del magnate, il modo in cui vengono inquadrate le persone, gli oggetti e gli arredamenti ci racconta quella distanza tra i personaggi senza che ci sia bisogno di dirlo. Il regista si affida all’interpretazione straordinaria di un Adrien Brody forse mai così in parte dai tempi de Il pianista, perfetto nel somatizzare e restituire tutto il suo passato e la sua sofferenza, e a un parco di comprimari fantastico, Guy Pearce su tutti, formidabile nel restituire un personaggio così carico di ambiguità e pronto ad esplodere da un momento all’altro.
Con The Brutalist, Brady Corbet si fa grande raccontando una grande storia americana, quella di film come Il petroliere (e il cinema di Paul Thomas Anderson è un evidente punto di riferimento), in cui alla base ci sono l’ossessione spasmodica e viscerale per un obiettivo, la sopraffazione e la violenza su cui si fonda il sistema capitalistico; a questo si oppone l’arte, che può essere il veicolo per dare forma ai traumi del passato, e può farsi custode e scrigno della memoria.
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