Barbie non basta a salvare il cinema

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Barbie è il primo film diretto esclusivamente da una donna a incassare più di un miliardo di dollari. L’opera di Greta Gerwig è entrata nel ristrettissimo club dei film miliardari (53 pellicole in tutto), ma basta davvero a salvare il cinema? 

Sull’orlo di una potenziale estinzione, provocata dalla concorrenza dello streaming e da un sistema di produzione calcificato e impreparato a soddisfare le aspettative di un nuovo mercato diversificato e più giovane, il cinema creativo è tragicamente in crisi. Le sale cinematografiche vivono in acque agitate e il cambiamento sociale e culturale che ha scontato un paese polarizzato come il nostro si sta riverberando sulla settima arte e l’uscita simultanea di due dei film più attesi dell’anno ne è la prova.

L’arrivo di Barbie nei cinema è stato programmato con intelligenza per spingere i consumatori – nel senso stretto del termine – a scannarsi per avere per primi gadget o partecipare alle attrazioni turistiche ispirate al mondo delle bambole Mattel. Un lancio arrivato lo stesso giorno dell’uscita di Oppenheimer di Christopher Nolan, un thriller biografico sul “padre della bomba atomica” e sul Progetto Manhattan. La bizzarra giustapposizione dei due film ha aperto la strada a Barbenheimer, un fenomeno culturale mondiale ineluttabile, al pari dell’incoronazione di Carlo III o della finale di Wimbledon o del tour europeo di Taylor Swift. 

In uno dei weekend più caldi di luglio, da quando ne ho memoria, vedere i cinema stracolmi, con file che toccavano la porta d’uscita, mi ha fatto battere il cuore, non lo nego. Soprattutto perché poco più di tre mesi fa eravamo in tre in una sala a vedere uno dei film più belli dell’anno. L’opportunità di immergersi in un mondo utopicamente perfetto di Barbie Land, un luogo in cui tutte le Barbie non invecchiano e vivono in armonia, ha fatto in modo che Barbie attirasse più aspettative di quanto già non lo facesse. 

Barbie non basta a salvare il cinema

“Urrà”, avrà gridato qualcuno, visti i risultai ai box office, peccato che in questo stesso periodo Milano ha detto addio al cinema Odeon – presto fagocitato da un nuovo centro commerciale -, dopo quasi un secolo di storia. Un epilogo sconsolante ma perfettamente in linea con la crisi delle nostre sale cinematografiche. Tuttavia, ciò che mi preoccupa maggiormente del clamore di Barbie è l’eccessiva insistenza sul fatto che Greta Gerwig – regista che apprezzo da sempre – abbia realizzato “il film dell’anno” su una bambola perché tratta temi femministi. Che poi non è la bambola in se per sé, non ho nulla contro la Mattel, c’ho giocato anche io con le Barbie, ma il fatto che a questo punto c’è un’ignoranza cinematografica profonda, a tratti preoccupante. Un pensiero che fa riflettere su come i risultati al botteghino del sogno femminista rosa shocking, con al centro i biondissimi Margot Robbie e Ryan Gosling con addosso gli abiti color pastello, mistifichino la realtà e non sono altro che un fenomeno atipico, una straordinarietà in un’industria che arranca da anni. Un evento dettato da un’attenzione morbosa, spinta da un marketing sfacciatamente bombardante che risuona come promessa innovativa e sfida alla presa monolitica che i franchise di supereroi detengono sul botteghino mondiale da almeno cinque o sei anni.

Il fenomeno Barbenheimer incarna una messa in discussione dei criteri tradizionali del successo cinematografico: due singoli film, non correlati per genere, narrazione e stile, sono diventati indissolubilmente legati nella coscienza pubblica, un accoppiamento che ha innegabilmente alimentato il loro slancio collettivo. Ogni film riflette un aspetto dell’ideazione americana della metà del secolo – uno attraverso una commedia sulle bambole, l’altro attraverso un film biografico d’epoca – una connessione che ha conquistato pubblico e critica. 

Il doppio trionfo di Barbie e Oppenheimer determina certamente il potere della diversità narrativa e la forza dei contenuti originali, speranza di un’industria in evoluzione che si sleghi una volta per tutte ai cinecomic che hanno monopolizzato il botteghino. Tuttavia, la “luna di miele” di Hollywood con il boom di Barbenheimer potrebbe essere fumo negli occhi, non solo per i continui scioperi dei sindacati di attori e sceneggiatori che stanno smorzando lo slancio limitando la promozione e le anteprime dei film, ma perché Barbie potrebbe aver dato il via a una tendenza tra gli studi cinematografici a spendere cifre esorbitanti nel marketing per continuare a riportare le persone nei cinema, dando spazio solo a Blockbuster e tagliando fuori tutte le altre produzioni.

Altresì, il clamoroso successo dell’ondata Barbie sottolinea una verità innegabile: il pubblico brama storie originali e autonome che non solo sfidino lo status quo, ma ridefiniscano i contorni del successo cinematografico. Un sospiro di sollievo dopo che qualche mese fa la la top ten dei botteghini pullulava di sequel hollywoodiani, remake e adattamenti di videogiochi.

Barbie non basta a salvare il cinema

Tuttavia, mentre l’industria attraversa un periodo segnato dalla mancanza di idee originali, Barbenheimer è da una parte una brillante testimonianza del potere duraturo dell’innovazione e del fascino senza tempo del cinema, al di là della tecnologia digitale e dei supereroi in sala; dall’altra parte rende la fruizione cinematografica come un evento meramente commerciale mentre i cinema in città scompaiono. 

Il cinema sta gradualmente morendo all’interno di uno scenario che sta spingendo le sale ad essere legate ad un rapporto tossico di dipendenza con le storie di franchise di fantascienza o supereroi Marvel o di strategie di marketing di Blockbuster con costi stratosferici, mentre fiocca il successo di una visione basica dettata dallo streaming. Un processo, ahimè, irreversibile, salvo clamorosi colpi di scena che francamente paiono ad oggi del tutto irragionevoli. Una percezione consapevole e comune, seppur tombale, ma dannatamente reale. 

Quindi no, non basta un film super commerciale come Barbie a salvare il cinema e non è nemmeno lontanamente sufficiente per risolvere la miriade di problemi di un’industria che respira affannosamente. Strappare le persone dai loro divani e allontanarli dai loro televisori non è un processo facile, e non è detto che si realizzi a breve/lungo termine. C’è bisogno di una rivoluzione, di una scossa che ribalti l’intera industria, che la svegli da un torpore che la sta attraversando da interi decenni. 

Isabella Insolia
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