Zerocalcare nella sua graphic novel “Kobane Calling” ricorda anche a noi di Shockwave che il punk non è morto, lo fa attraverso un reportage illustrato come inviato sulla striscia di Rojava, in cui i precetti del punk vengono fuori più preponderanti che mai, in una storia di repressione e una guerra, ad oggi, più viva che mai, in nome della propria autenticità di popolo libero
Il punk esiste o il punk è morto? Sembra essere – nella sua retorica – il quesito degli ultimi anni. Un movimento culturale e una forma di resistenza sociale (poi esteso anche nella musica) che ha compiuto nel 2017 i suoi primi quaranta anni, che convenzionalmente affonda le sue radici nella pubblicazione del singolo “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols (1977). Quindi sono i quattro ragazzacci britannici i padri fondatori del punk classico come origine musicale? Sì e no. Sì perché – insieme ai The Clash sono i capostipiti di questo nuovo trend, no perché in realtà le menti sono state quelle del loro manager Malcolm Mclaren e di sua moglie Vivienne Westwood. Il primo, Mclaren, proprietario di un negozio di articoli sadomaso, vide in questi quattro teppistelli un potenziale mezzo di sponsorizzazione per la propria attività commerciale, sua moglie, stilista sui generis, un’occasione per esprimere il proprio (opinabile) estro. Insomma, una nascita molto più da business che da rivoluzionari punk.
Fatta questa doverosa premessa, analizzata l’esegesi mediatica del fenomeno musicale, sarebbe sbagliato ed oltraggioso svilire tutto il fenomeno punk additandolo come “trend da vendita”. Lo abbiamo già detto e va ripetuto, il punk è una (sub)cultura fatta di valori complessi, i quali rispecchiano la rabbia generazionale troppo a lungo repressa, che viene diretta in due direzioni: verso la borghesia e le sue ipocrisie, fatta di protocolli, burocrazia, endorsement del capitalismo e delle sue ingiustizie e (soprattutto) verso la crisi del ’68 rea di non aver prodotto i cambiamenti promessi e di non aver stravolto la società inglese. Insomma un movimento di rivolta contro i precedenti rivoltosi. Che sembra già abbastanza rivoluzionario così, senza voler scendere troppo nei dettagli di ribellione contro la Working Class.
Attualmente gli ultimi di brandelli di punk che (apparentemente) sembrano essere rimasti in questa generazione, li si possono ritrovare condensati nell’antifascismo dei centri sociali. Un ambiente ancora prolifico per le band che approcciano a questo genere, e una gerarchia anche nei seguaci dello stile; una sorta di “nonnismo” come lo ha definito proprio Zerocalcare, colui che con la sua opera “Kobane Calling” ha dato lo spunto a questa digressione politico-musicale.
Zerocalcare, al secolo Michele Rech, è un artista romano noto per essere uno dei massimi esponenti di una cultura innovativa e controcorrente. La sua storia di disegnatore, fumettista, involontariamente reazionario, nasce come alternativa al suo lavoro in aeroporto e alle ripetizioni, non proprio una vocazione nata sin da bambino. Frequentatore assiduo dei centri sociali sin dalla prima adolescenza, nell’ambiente del proletariato sociale la sua matita e i suoi disegni fungono da tratto distintivo nella “gerarchia del punk” di cui sopra. Nasce così la sua arte, disegnando le locandine per le manifestazioni organizzate proprio dai centri sociali. Un rapporto così radicato che ha conservato e che difende anche adesso che il successo lo ha investito, a tal punto da renderlo schivo e avverso nei confronti delle interviste su quotidiani o giornali generalisti che possano includere nello stesso numero la sua intervista e un articolo su occupazioni e sgomberi, o la richiesta di reclusione per i suoi “compagni”. Insomma la testimonianza che il punk riesce ancora a resistere nella sua indole.
Due tratti distintivi escono fuori dalle sue opere, l’ironia verso i paradossi della quotidianità e la cosmogonia della cultura pop. Un Andy Warhol dei giorni nostri.
Ma torniamo alla sua opera più punk, “Kobane Calling”. Il nome è evocativo dell’altro iconico brano degli anni caldi del punk, “London Calling” dei The Clash.
Questa opera è uscita in anteprima esclusiva su Internazionale il 16
gennaio 2015 con quarantuno pagine, e in un volume edito da Bao Publishing
l’anno successivo.
L’autore, schivo ed introverso per natura, ha da sempre dato voce alle
riluttanze della sua coscienza impersonandola nella figura dell’armadillo, in
dialoghi grotteschi e a tratti paradossali con esso. A Kobane non ci sarà
spazio per le titubanze e per le voci della coscienza interiore, ma
nell’annuncio della partenza ai genitori si. E così il cameo dell’armadillo
torna protagonista. Ma torniamo al punk, argomento cardine di quest’oggi. Cosa
succede a Kobane e perché il nostro riluttante fumettista decide di abbandonare
Rebibbia e il suo Mammut per partire alla volta del confine turco siriano? A
Kobane risiede attualmente la vera culla del punk, e a farsene carico sono un
esercito di donne, ambasciatrici di valori di resistenza, di democrazia e di
modernità.
“Quando senti RATATATA, è Isis; Quando senti TUM,TUM,TUM, siamo noi!”
E SBOOM?”“SBOOM dipende.
Fuoco e poi SBOOM è americani.
SBOOM e basta è Isis.”
I curdi in Siria costituiscono una comunità minoritaria che risiede soprattutto nelle zone settentrionali del Paese. Il “Kurdistan storico” – quello cioè che comprende le regioni abitate da questa popolazione in Medio Oriente – si estende infatti per alcuni tratti anche in Siria. Le sue dimensioni, però, all’interno del contesto siriano, sono di gran lunga inferiori per estensione e popolazione rispetto al Kurdistan turco ed iracheno. La zone storicamente abitate dai curdi in Siria vengono indicate dalla stessa popolazione come province del “Rojava“, un termine che significa “occidente”. In questa terra già patria di conflitti interni tra la repressione del regime turco di Erdogan, che non riconosce i curdi come popolazione indipendente, sul confine turco siriano la situazione si è acuita con l’arrivo del sedicente stato islamico. L’ISIS per intenderci. Poi sono arrivati gli americani che (pare) vogliano combattere il terrorismo e la jihad, e quel lembo di terra è divenuto patria di “sboom, ratatata e tum.tum.tum” incessanti.
Ruolo chiave in questo clima è quello delle donne curde, riunite in un collettivo chiamato YPJ—l’Unità di Protezione delle Donne— che rappresenta, purtroppo, un unicum in tutto il Medio-Oriente. La Gineologia, conosciuta anche come la Scienza delle Donne, rappresenta uno dei pilastri della rivoluzione sociale in atto nel Rojava. Questo innovativo concetto fu teorizzato per la prima volta dal leader del PKK Abdullah Öcalan e rappresenta un importante passo avanti per il movimento di liberazione femminile. Esso, infatti, introduce una nuova forma di femminismo che si regge sulla famosa affermazione di Öcalan:
“Un paese non può dirsi libero finchè le donne non sono libere” e che si pone in antitesi al paradigma sessista basato sulla dicotomia soggetto-oggetto, riassumibile nell’espressione “gli uomini fanno, le donne sono.”
C’è voluto parecchio tempo prima che le donne guadagnassero rilevanza politica e militare e fossero in grado di organizzarsi autonomamente in un esercito ma riuscirono finalmente a creare un’ articolata rete di organizzazioni democratiche. Sono proprio le donne l’emblema dei contrasti di questo angolo di mondo: divise da un fronte di guerra e da valori inconciliabili, a distanza di pochi chilometri coesistono esempi di realtà opposte e destinate allo scontro. Da un lato apprendiamo sgomenti dell’esistenza della brigata femminile Al-Khansaa, una sorta di polizia stipendiata del “buon costume” islamico, preposta al controllo dell’ osservanza della Sharia e spietata tanto quanto le rispettive unità maschili. Le sostenitrici dell’Isis, infatti, hanno acquisito maggior potere smettendo i panni di semplici “spose jihadiste” per ricoprire ruoli sempre più attivi e pratici. Ironicamente, l’Isis esercita su alcune di loro un certo fascino, offrendo un’inquietante interpretazione rivisitata del concetto di “girl-power”. Dall’altro giovani donne islamiche che imbracciano il fucile e guidano potenti eserciti.
Altra rivoluzione, dopo quindi il controllo militare, è quello di creare anche un corpo politico ed amministrativo in grado di governare la regione. Il modello a cui si ispira lo Ypg è quello del cosiddetto “confederalismo democratico” di Ocalan, il fondatore del Pkk che ha vissuto per vent’anni proprio nel Kurdistan siriano. Dopo circa un anno di dibattito interno allo Ypg, il 20 gennaio 2014 viene promulgato il cosiddetto “contratto sociale del Rojava“, con cui si sancisce la nascita della federazione cantonalistica di regioni autonome del Rojava. In questa scelta di campo, non c’è niente di religioso, tanto meno di “jihadista”. Combattono, certo, ma non hanno il profilo dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila dell’Isis. Non sono animati dall’odio, non intendono imporre uno stile di vita totalizzante, non sono alla ricerca di un riscatto sociale o in fuga da una vita di stenti ed emarginazione. L’orizzonte è quello della libertà.
“Il punk non è morto, perché il punk è un sentimento trasversale”, solo ritornando alle origini, anche nelle altre parti occidentali del mondo, culla dell’esistenza originale del punk, esso può ritornare dove merita: sui palcoscenici o per le strade, a dare voce a chi ne ha bisogno, a chi non ne ha.
E in questo Zerocalcare, Straight edge convinto, di quella branca
bacchettona del punk, che non assume sostanze che creano dipendenza o alterano
la coscienza, che rinuncia persino al brindisi di Capodanno ed al tiramisù
perché contiene caffè, porta si fa ambasciatore di questo movimento intrinseco
di azione e reazione, estendendolo anche alla musica, creando la sua top five
di canzoni da rivoluzione, in onore di Kobane Calling. “L’Oltretorrente”
degli Atarassia Grop,dedicata alla Resistenza di Parma del 1922; “La
preghiera dei banditi” dello stesso gruppo, pezzo legato alla lotta di
liberazione dei curdi, non necessariamente di Kobane, ma più in generale in
Siria e in Turchia. Parla dei partigiani e dei sacrifici affrontati durante la
lotta di Liberazione italiana che corrisponde più o meno a quella dei Curdi.
Cambio di autori con “Granito” dei Plakkaggio HC, “Troppo
distante” dei Bull Brigade, e un omaggio al legame indissolubile con
Rebibbia di “Re del quartiere” de Gli Ultimi.
Il punk resiste, basta solo saperlo cercare.
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1 commento su “Che fine ha fatto il punk? Ce lo ricordano Zerocalcare e gli abitanti di Kobane, vera culla di questo movimento”
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