Nel vasto panorama musicale italiano, tra i grandi esponenti del progressive rock e del jazz, è impossibile non citare gli Area. Una straordinaria formazione capitanata dalla potente voce del compianto Demetrio Stratos e sorretta da dei musicisti sempre pronti a mettere le loro capacità al servizio dell’arte e dell’improvvisazione più sfrenata.
Il risultato? Una libertà pressoché totale sotto lo sguardo attento e visionario della Cramps Records incarnata nella figura di Gianni Sassi (1938 – 1993) che ha prodotto e distribuito il lavoro di questi geniali musicisti.
Oltre al già citato Stratos, è impossibile non menzionare il chitarrista Paolo Tofani, il bassista Ares Tavolazzi, il batterista Giulio Capiozzo (scomparso nel 2000) ed il tastierista Patrizio Fariselli con il quale ho avuto il piacere di parlare in occasione di questa intervista.
Abbiamo dunque parlato di musica, ovviamente, andando a ricordare i tempi degli Area, la sua attività solista, l’esperimento degli Area Open Project e tanto altro ancora. Buona lettura!
Ciao Patrizio, come stai? Che cosa stai facendo in questo momento di simil lockdown?
È tutto bloccato e noi, la gente che lavora nella cultura e nella musica, è completamente tagliata fuori. Siamo al limite del disastro, in tutti i sensi, e quindi sono parecchio “incazzatello” (ride). Ma non è stato del tutto del tempo perso perché ho fatto un sacco di cose in questi mesi, oltre a rodermi il fegato ho perso quasi 10 chili, sto preparando un nuovo lavoro, sto scrivendo un libro e prossimamente ci saranno un po’ di uscite.
Com’è nata la tua passione per la musica e quali sono stati i tuoi artisti e le tue band di riferimento?
Sono stato avviato allo studio di uno strumento all’età di 8 anni da mio padre che era musicista. Io provengo da una famiglia di musicisti quindi mio padre, mio zio, mio nonno, mia nonna, mio fratello, siamo tutti in questo settore. Mio padre decise quindi che dovevo studiare uno strumento perché ci teneva che, a casa sua, i suoi figli sapessero la differenza tra un do diesis ed un re bemolle ad esempio. E così mi sono messo a studiare il pianoforte, cosa di cui all’epoca non mi fregava bellamente niente (ride). Questa cosa è andata avanti fino ai 16 anni quando, finalmente, mi sono accorto che qualcosa sapevo fare, cioè, suonare nonostante remassi contro.
Quando entrai in un gruppo beat cominciai a suonare quasi professionalmente con una lunga stagione al mare. Un repertorio meraviglioso tratto dal film “Blues Brothers”. Assieme a questo aggiungici che, dopo pochi mesi, ho visto al Festival del Jazz di Bologna, il trio di Bill Evans poco prima che incidesse il suo “Live in Montreux”, uno dei dischi più belli della storia del jazz, con Eddie Gómez al basso e Jack DeJohnette alla batteria. È stata un’esperienza che mi ha aperto come una banana (ride) e da lì è partito la passione della musica e della scoperta che avevo trascurato in qualche modo. Una cosa che, a 70 anni, mi coinvolge al 100%.
Allora, a questo punto, ti chiedo cos’è per te la musica e, soprattutto, l’improvvisazione. Ne avevi parlato anche in altre interviste
Parlo spesso dell’improvvisazione, è uno dei temi principali, ma domande su come nasce la creatività e simili sono domande destinate a rimanere senza una risposta diretta. Ci possiamo però arrovellare e girarci attorno, è questo il sistema corretto. L’esempio che mi piace fare è quello dell’astronomia. Tu hai mai messo l’occhio in un telescopio per guardare nel cielo profondo?
Sì certo
Allora ti sarai trovato davanti a bagliori veramente minimi, minuscoli. Se poi la guardi direttamente, una stella o una nebulosa, non la vedi, ma se metti fuoco a lato sfruttando la visione periferica, allora, intravedi qualcosa perché quella è la parte più sensibile dell’occhio. E questa è una cosa, l’altra è “l’addestramento” per gestire questi elementi e la propria presenza dato che ti esponi nudo (ride) di fronte ad una platea. Ci ragionavo giusto oggi perché, anche ad una certa età, è sempre come la prima volta. Prossimamente devo fare un concerto, in streaming, e sto preparando la scaletta per quasi un’ora e mezza di piano solo.
Ma non sono da solo perché ci sarà anche un grande concertista, come Bruno Canino che farà un concerto di musica classica, ed è un’occasione importante per me. Quindi la mia scaletta, che è bella nutrita e ramificata, occupa circa un 30% mentre il 70% del materiale che eseguirò è legato all’estro del momento. È la mia vita, è il mio modo di fare ed è una cosa che mi piace fare anche se mi crea ansia perché non posso prevedere quello che succederà e mi costringe ad essere un “guerriero” dal punto di vista fisico. Arrivare pronto e forte (ride).
Studio comunque ogni giorno per allenarmi a non fare una brutta figura dato che è un rischio che si corre nell’improvvisazione. Mi piacciono comunque i fallimenti perché sono dei pezzi importanti nella serendipity della vita. Noi “guerrieri del difuorismo” dobbiamo essere preparati a raccogliere queste cose, un po’ ce le mette davanti il caso e dall’altra chissà chi, ed essere attrezzati. Acquisire dunque una conoscenza pratica, ma anche una freschezza ed una elasticità mentale, poi da lì chissà cosa succederà. Te lo racconterò dopo (ride)!
Allora me lo saprai dire dopo! A parte la musica hai altre passioni?
Beh sì, tante, una di queste è l’astronomia. Una passione che si è scatenata improvvisamente dalla lettura di una rivista per una ricerca scolastica. A scuola la figlia deve fare la ricerca, ma chi va a comprare una rivista e se la studia è il papà (ride). Questa rivista era “L’Astronomia”, bellissima anche se ora non c’è più, ed era diretta da Corrado Lamberti e Margherita Hack. Leggendola, la cosa che mi ha più turbato, era che non ci capivo un accidenti (ride), non avevo gli strumenti e la cosa mi ha fatto “arrabbiare”, ma non perché volevo sapere tutto, ma almeno un’idea minima su come girasse l’Universo.
Poi leggere, la fantascienza, scrivere, la mia vecchiaia produrrà diverse ristampe come “Storie Elettriche”, una serie di aneddoti sulla mia gioventù, sugli Area e su tutte le “storielle” raccontate in una chiave più buffa. Facevamo sempre un sacco di cose divertenti, ma comunque con l’intendo di “guerrieri”. Sono orgoglioso di aver fatto questo libro, è un libro di stronzate, ma sono le nostre stronzate (ride). I racconti che noi stessi ci tramandavamo tra di noi quando cenavamo a casa di qualcuno, ricordare tanti episodi che ci sono capitati. Tra di noi c’erano dei grandi raccontatori come Paolo Tofani, Demetrio stesso, degli affabulatori.
Ed era più buffo sentire il loro raccontare il vissuto al posto del vivere quel momento! Ho cercato di raccogliere queste storie ed il complimento che mi ha fatto il mio amico Gianfranco Manfredi, che è uno scrittore vero mentre io sono “finto”, è stato: “guarda, riesco a sentire l’odore di quegli anni”. Un periodo che è passato alla storia quello degli anni Settanta, anche con gli anni di piombo dove giravano anche proiettili, bombe, stragi. Noi abbiamo cercato di elevare la qualità della vita e di un movimento vasto, ma anche contraddittorio, e divertente. Mi reputo fortunato ad aver avuto 20 anni in quel periodo storico, uno dei momenti più intensi del Novecento. Lì cresceva l’attenzione creativa.
Decisamente
Tieni conto che poi erano ancora vivi i grandi maestri del Novecento. Da Stravinskij a Duke Ellington, John Coltrane era morto da poco quindi prendiamo anche un pezzettino dai Sessanta, coesistevano grandi artisti della musica e dell’avanguardia. Con Cage che, su tutti, decretava la fine di questo percorso fatto di avanguardie e di modernità. Un periodo straordinario devo dire, anche se mi immalinconisce un po’ perché mi fa pensare ai miei 20 anni come al mio periodo d’oro. Un po’ come fa un qualsiasi rincoglionito (ride). Erano effettivamente anni pazzeschi, pur nelle loro contraddizioni, con un livello di densità ed un battito che sarebbe ancora tutto da studiare. Mi aspetto che dai giovani venga fuori qualcosa di nuovo, non possiamo essere noi settantenni (ride).
In che maniera è avvenuto l’incontro con gli altri membri degli Area e com’è nata l’idea del gruppo?
Ai miei tempi, come diceva Abraham Simpson tirandosi le bretelle, per un giovane musicista negli anni Sessanta e Settanta, il massimo dell’ambizione era lavorare in un gruppo o mettere su un collettivo. Cioè, erano pochi quelli che pensavano ad una carriera come solista. Già da adolescenti volevamo fare una “macchina” che creasse cose interessanti dando comunque forza alla propria personalità.
Quando ci siamo conosciuti io e Giulio Capiozzo, all’epoca io avevo 16 anni e lui 21 ed era già un grande batterista mentre io un pischello, avevamo molti interessi comuni e per anni abbiamo “combinato disastri” assieme in zona favoleggiando la costruzione di un gruppo potentissimo, estremo. Questa volontà totale e totalizzante l’abbiamo condivisa con gli altri musicisti che, piano piano, si sono raggrumati attorno alla figura di Demetrio.
Un catalizzatore inconsapevole perché lui non sapeva ancora a cosa sarebbe andato incontro, allora era il cantante di un gruppo da ballo in cui cominciarono ad entrare alcuni musicisti come Capiozzo. All’epoca ero militare, ma comunque si sono avvicendati musicisti come Victor Edouard Busnello e Patrick Djivas. Il gruppo ha quindi cominciato a trasformarsi con un doppio repertorio. Uno per far ballare lo shuffle blues la sera, come diceva Jannacci, e nel pomeriggio si studiava musica nuova e sperimentale con Johnny Lambizzi alla chitarra.
Erano insomma nel nucleo principale degli Area, ma non sono arrivati alla registrazione del primo album “Arbeit Macht Frei” con l’arrivo di Paolo Tofani. Diciamo che, piano piano, il gruppo si è auto selezionato e ci siamo trovati a condividere un momento straordinario con persone altrettanto straordinarie nel momento giusto. La situazione era veramente incredibile, mi reputo un uomo fortunato per essere stato lì. Riascoltando i primi esperimenti di questi ragazzi, poco più che ventenni, con Paolo Tofani, in occasione della rimasterizzazione, è stata una grande emozione.
Visto che hai citato Patrick Djivas, ora PFM, che ricordi hai del tempo passato con lui?
Patrick era un musicista dotato con una buona visione per il futuro e, quando l’ho conosciuto, era una persona interessante. Non lo capivo bene fino in fondo, ma l’ho capito meglio quando ci “tradì” poco dopo. Lui mollò gli Area, ma comunque sono caduti in prescrizione certi “reati” (ride). L’unica cosa che va detta a suo merito è che, perdendolo, abbiamo potuto trovare Ares Tavolazzi. Djivas comunque ci tradì non tanto perché andò con la Premiata, ognuno è libero di fare quello che vuole, ma per il modo in cui lo fece. Fu una pugnalata terribile perché, per colpa sua, il gruppo si sciolse per tre mesi e non puoi immaginare il dolore. Per fortuna poi trovammo il modo per tirarci su.
Comunque tieni presente che noi avevamo appena fatto uscire “Arbeit Macht Frei”, il nostro primo disco e non uno qualunque, e dovevamo fare la nostra prima Internazionale all’Olympia di Parigi come gruppo spalla. E quindi alla sera brindiamo assieme e poi, il giorno dopo, ci chiama il manager dicendoci che lui andava via per dei motivi suoi. Questa non gliel’ho mai perdonata (ride). A quell’epoca, a Parigi, c’era un gruppo come i Magma e se gli capitavamo noi nel 1973 sarebbe successo un discreto casino. La vita è fatta così, un po’ come nel film “Sliding Doors”. Un piccolo effetto a monte può provocare alcuni effetti a valle in un certo lasso di tempo e questa è la legge del caos. Chissà cosa sarebbe successo, ma non rimpiango nulla perché sono affezionato a questa linea temporale.
Prendiamo dunque questa linea temporale, quella odierna, con gli Area avete diviso il palco con i Gentle Giant, com’è stato il tour con loro?
Fu molto divertente perché io ero entrato da poco nel gruppo e quello è stato il primo vero tour. I Gentle Giant erano un gruppo molto carino e stimolante, un po’ costruito secondo il nostro punto di vista (ride), e forse anche un po’ troppo preparati perché non lasciavano nulla all’imprevisto. Cosa che per noi era la base, come ti avevo detto prima. È stato un tour che ci ha un po’ “svezzato” per certi versi, la vita dei gruppi spalla è sempre difficile perché sei davanti a delle persone che non vogliono vedere te, ma i Top of the Bill.
È una cosa che ti indurisce perché ci presentammo con il materiale che non era ancora stato ripulito e asciugato in forme registrabili, era abbastanza prolisso per certi versi, con molti momenti di improvvisazione collettiva. E poi c’erano delle cose anche belle “massicce” che, in una situazione come il Palasport di Roma con tantissime persone, rendevano necessario anche un certo fisico per sostenerle. Sono cose che o ti scoraggiano o ti danno la forza per andare avanti!
Ci sono stati degli altri gruppi con i quali siete stati in tour ed hai dei ricordi o degli aneddoti legati a loro?
Nel periodo degli inizi sì, con i Gentle Giant, ma anche con Rod Stewart, i Soft Machine, i Nucleus. Centinaia di concerti nei posti più assurdi perché il movimento era molto ramificato e con tantissime organizzazioni diverse da città a città come Parco Lambro. L’abbiamo fatto molto volentieri per circa dieci anni, dove ti pagavano poco, ma c’erano anche i grandi concerti e raduni dove conoscevo un po’ tutti ed un po’ nessuno (ride).
Ci sono dei brani o degli album degli Area ai quali sei più legato?
Questo no perché, come diceva Mario Merola, “i figli so’ pezzi ‘e core”. I nostri lavori, dal mio punto di vista, sono stati fatti con tutto quello che potevamo dare in quel momento. Né più né meno. Poi le cose le rivedo perché potevano evolvere in un’altra maniera, non è tutto oro ciò che luccica. Devi sapere che sono molto critico sul mio materiale e, prima di portarlo al pubblico, deve superare un dibattito mio interno dove un orecchio dice una cosa e l’altro il contrario. Da sempre abbiamo lavorato al massimo nelle nostre possibilità, non come Coltrane, e poi tieni conto che i dischi sono degli snapshot che fissano un divenire. Si cristallizzano in una serie di attimi e di boe che tu ti lasci indietro, ma tu sei la nave che naviga in continuazione.
Rimanendo in tema navi, la storia degli Area ha tre navi all’ancora o affondate, purtroppo la vita gioca questi tiri mancini, come Demetrio Stratos, Giulio Capiozzo e Gianni Sassi della Cramps. Che ricordo hai di loro?
Da questo punto di vista temo di non poter essere smentito quando dico che il nostro gruppo è stato bersagliato da una sfiga che, definire di livelli cosmici, è poco. Se mi guardo indietro è un incubo. Demetrio, nel momento in cui stava decollando anche la sua carriera solista, ha avuto la sfortuna di prendersi una malattia tremenda e andarsene nel giro di un mese e mezzo. Praticamente nel momento in cui gli si erano spalancate le porte del gotha della musica internazionale negli Stati Uniti. Quindi pensa che giramento di maroni, povero Demetrio, spero che i fantasmi e che esista un aldilà così, quando ci rivedremo, ce lo racconteremo.
C’era un legame speciale con lui, molto forte, ci siamo tenuti per mano per molto tempo in un percorso di studio e di crescita. Da ragazzi un po’ “ciula” ad artisti sempre insieme. Al fatto che sia mancato io ci ho creduto solo quattro o cinque anni dopo. Anche se l’ho seppellito non ci volevo credere. E poi Giulio, anche lui, è morto sotto i miei occhi dopo aver suonato del jazz in un locale. Paf, così, un collasso cardiocircolatorio. Vabbè, poi lui fumava a livelli industriali e ha pagato per una vita così come Gianni Sassi. Anche lui un tumore ai polmoni con tutte le sigarette Nazionali senza filtro che ha fumato a tonnellate.
L’altro (Capiozzo ndr) fumava invece Gauloises, Rothmans, sigarettacce del genere. Ovviamente anche io ho sempre fumato tanto, mi piaceva, ma poi ad un certo punto ho detto basta. Poi, visto che stiamo parlando di amici scomparsi, ti posso citare Victor Edouard Busnello e tutti gli altri sassofonisti che gli Area hanno avuto. Da Larry Nocella a Massimo Urbani, chi se l’è un po’ cercata per una vita ai limiti e chi per sfiga. Per la miseria, quando abbiamo fatto la reunion eravamo solo Paolo Tofani, Ares Tavolazzi ed io.
In che rapporti sei rimasto oggi con Tavolazzi e Tofani visto che ne stiamo parlando?
È gente a cui, anche se ho litigato con loro (ride), voglio molto bene. Sono fratelli anche se non ci frequentiamo più perché è troppa la distanza di pensiero. Ai tempi la pensavamo già in maniera diversa, ma non così tanto (ride). Allora c’era la disponibilità di mettersi in discussione e di prendere in considerazione le istanze degli altri. Se coesistono queste forme contrarie, anche nella dialettica, si produce un risultato altro.
Poi, maturando, si tende a sviluppare un proprio pensiero come fa un artista degno di questo nome. Comunque sia ci stimiamo a vicenda perché riconosciamo i meriti di ognuno. Poi tieni conto che uno vive per buona parte del suo tempo in India (Tofani ndr) ed uno in Toscana (Tavolazzi ndr). Adesso io, professionalmente, sono più interessato a nuovi talenti. A dei musicisti che vogliono misurarsi con le mie idee ed il mio materiale e che mi restituiscono l’energia giusta.
A tal proposito, come valuteresti l’esperienza con gli Area Open Project? Com’è stato risuonare e riproporre i vecchi brani riadattati, soprattutto con una voce femminile?
Beh, è il mio gruppo (ride), un ensemble composto da vari musicisti che gestisce diversi repertori. In forma di quartetto, di recente per esempio, con Claudia Tellini (voce ndr), Marco Micheli (basso ndr) e Walter Paoli (batteria ndr) abbiamo fatto un live in Giappone. Mi diverto molto a fare questo tipo di cose perché, se vuoi la versione “consegnata alla storia”, ti vai ad ascoltare i dischi, ma se invece la prendi e fai cantare questi contenuti da un fenomeno come Claudia e la rimoduli con la sensibilità di oggi, allora è davvero una cosa che mi piace portare in giro.
Anche perché mi piace vedere la faccia dei ragazzini quando si trovano per sbaglio a sentire il concerto (ride) e si vede che il cervello non reagisce. Ma è altrettanto vero che, tante volte, il cervello flippa com’è successo a me davanti a Bill Evans, non so se mi spiego. Area Open Project è poi una formazione che porta in giro anche un mio disco, “100 Ghosts”, che non ha niente a che vedere con il vecchio repertorio. Purtroppo abbiamo incontrato sulla nostra strada questo virus per cui non siamo riusciti a diffondere il materiale, ma se la salute ci tiene spero di tornare presto a riproporlo.
C’è poi un’altra formazione con Giovanni Giorgi (batteria ndr) e Caterina Crucitti (basso ndr) dove sperimentiamo senza rete del materiale nuovo. La formazione trio è la più dura di tutte probabilmente. Poi c’è un’altra versione a quattro sempre con Claudia, due uomini e due donne, dove si macina tutt’altro materiale quindi diciamo che è una visione un po’ composita e difficile da comunicare. Più che un gruppo è una situazione (ride).
Qualche anno fa Elio e le Storie Tese vi hanno omaggiato con il brano “Come gli Area”. Che ne pensi?
Beh, a parte che siamo andati in studio a mettere due note per l’introduzione, ma non so quante ne abbiamo tenute effettivamente per il pezzo. Ma sì, è stato molto divertente quando l’hanno eseguita a “Il Musichione” e noi eravamo lì come ospiti. Gli ELII sono molto bravi e sono stati uno dei gruppi con dei grandissimi musicisti e davvero un bel senso dell’umorismo che mi fa sbudellare dal ridere. Tra i pochi in grado di farlo, loro e Freak Antoni con gli Skiantos. Un vero fenomeno, una persona colta, sensibile e brillante, ci manca tanto. Mi sono sentito onorato di essere citato dagli ELII che ci hanno dedicato questo pezzo che ci fa anche un po’ il verso.
A parte gli ELII e gli Skiantos, secondo te, ci sono dei gruppi oggi che hanno raccolto l’eredità degli Area?
No, ma lo dico perché o non li conosco o non me li hanno presentati (ride). È un po’ che non ricevo del buon materiale. Prima avevo i miei “pusher” che me lo portavano o i miei amici, ora è un po’ che latitano. Poi in Italia sono cambiate tante cose, ad esempio non c’è più il gusto per il gruppo o del vero collettivo e poi perché è tutto orientato verso la musica pop. Noi ci chiamavamo Popular in un altro senso nel tentativo di far uscire dal ghetto dorato della cultura cose colte.
Era indispensabile saper suonare ai massimi livelli possibili, ma questa cosa la ritrovo in molti musicisti. In Italia, comunque, la preparazione musicale è molto alta. Non mancano i talenti, mi capita di stupirmi ascoltandoli alla radio, ma quello che mi sembra di vedere è uno scarso interesse da parte dei giovani alla progettualità, al costruire un pensiero musicale e, soprattutto, a costruirlo in un collettivo. Vorrei comunque essere smentito (ride).
Che cosa farà Patrizio Fariselli domani?
Ma io ho un’età, già il problema è sopravvivere e mantenere la salute (ride). Comunque quello che vorrei fare è realizzare delle cose belle, intelligenti e divertenti. Ho la fortuna di collaborare con dei musicisti meravigliosi e quindi, ciò che voglio fare, è suonare soprattutto dal vivo. È parte della mia filosofia di vita quella di muovermi e condividere delle esperienze in uno spazio e poi, quando esci da lì, non è la mia ambizione fissare le cose.
Io sono per l’esperienza diretta e mi manca, tu non sai quanto. Ho lavorato tutta la vita per la condivisione e la prima cosa che stanno penalizzando è questa. Ho poi dei bei progetti nel cassetto. Alcuni sono editoriali nel senso che, nei prossimi tre anni, vorrei pubblicare i miei tre libri per bambini. Poi, a giugno, uscirà la seconda edizione di “Storie Elettriche” e c’è anche un romanzo, un libro di racconti ed un libro di partiture per pianoforte che, probabilmente, uscirà assieme alla ristampa del mio album per piano solo. Nel cassetto c’è anche un nuovo disco!
Questo è molto interessante!
Sì, l’ho già pre prodotto già un anno fa al tempo del primo lockdown. Praticamente ho imbastito il 95% del materiale per un nuovo lavoro ed è già in fase produttiva. Tutta la ricerca sonora ed i testi sono già ad un 60%. Insomma, tutto del materiale che, essendo così incazzato, non ascolto per quattro o cinque mesi e questa è la strategia. Io mi distraggo perché, nel momento in cui mi ci fiondo dentro, è come se ascoltassi del materiale scritto da un altro (ride). Con la falce stronco le cose e ciò che sopravvive è forte quindi so già che sarà un bel disco. Tra l’altro ti dico un’anteprima, ci sarà la vera storia de “La mela di Odessa” (ride), “La fogna di Murmansk”.
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