Baudelaire – La penna più affilata di una spada

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Se cercate uno scrittore di talento, dal vivace ingegno, l’animo tormentato e la penna più affilata di una spada, Baudelaire è ciò che fa al caso vostro. Poeta maledetto ancor prima di Verlaine e compagni, fu da questi additato come maestro, punto di riferimento di quella corrente, il Simbolismo, che peserà sui successivi orientamenti dell’arte e della letteratura novecentesche.

Un poeta da avvicinare con delusione

Baudelaire, buffo come cognome. Sarà il suono pieno della “b” che riempie la bocca, di quella consonante iniziale che vibrando sembra prendere tempo, nella rincorsa che precede il gran volo. Sarà questo o forse niente di tutto ciò, ma di fronte a un cognome del genere ci si aspetterebbe un omone corpulento, robusto, alto quasi due metri. Invece ci si ritrova davanti un uomo magrolino, stempiato, dagli occhi infossati. Quasi ne rimaniamo delusi. Già. Vedere per la prima volta un poeta di cui tanto si è sentito parlare e constatare che nel fisico non è come ce lo eravamo immaginato. Tranquilli, siete sulla strada giusta per apprezzarlo appieno. La delusione è proprio ciò che serve per mettersi nei suoi panni e ricordare che sapore abbia forse vi aiuterà a calarvi meglio in certe sue atmosfere. Ma non temete, non rimarrete altrettanto delusi dai suoi versi. Vi ci ritroverete, vedrete, e tornerete alla vita più avviliti, o, forse, più sollevati di prima.

I primi contrasti in famiglia

Nato a Parigi nel 1821, perderà il padre ad appena sei anni. Duro colpo per uno che non ha ancora imparato a leggere le istruzioni del mondo. La madre si risposerà un anno dopo con il maggiore Aupick e il rapporto col patrigno, tutto sommato sereno nei primi anni, si deteriorerà al termine del percorso di studi di Charles, a causa di una carriera a cui vorrebbero avviarlo e che non sente sua. Lui ha capito di voler scrivere. E non gli importa ciò che hanno in serbo per lui.

Ciononostante se ne dovrà occupare quando, divenuto da poco maggiorenne, la madre lo farà interdire, aprendo così la strada alla nomina di un curatore dei beni ricevuti in eredità dal padre. Baudelaire conoscerà in un solo istante l’umiliazione di non possedere più un soldo, di dover chiedere ciò che gli spetta e di dover essere squadrato, magari, come il più spregevole dei parassiti. Ma non è disposto a piegare il capo di fronte a una situazione del genere. La famiglia lo osteggia? E lui andrà avanti per la sua strada, malgrado le numerose difficoltà.

Baudelaire critico

Nel secolo della borghesia, ceto a cui appartiene, pur intrattenendo con essa un rapporto conflittuale, si troverà a condurre una vita anomala, fuori dalle regole. In una parola, bohémien. Troverà particolare gusto a scrivere di arte, dimostrando di essere non solo un critico dotato di acume, ma anche un attento osservatore dei fenomeni del suo tempo. Scriverà, infatti, soprattutto di contemporanei – Delacroix, Courbet, Manet, giusto per citare i più celebri – con i quali intratterrà non di rado rapporti di reciproca stima e amicizia.

Instaurerà uno stretto legame anche con lo scrittore Théophile Gautier, di cui si dirà discepolo in più di un’occasione. E, a dimostrazione di quanto fosse ricettivo alle novità del suo tempo in campo artistico e letterario, si fece promotore delle traduzioni di molte delle opere di Edgar Allan Poe, che, per la prima volta e grazie all’intermediazione proprio di Baudelaire, fece il suo ingresso in Francia.

Un contestato successo

Ogni autore che si rispetti ha un’opera che ne costituisce il cavallo di battaglia, uno scritto a cui viene associato nel corso dei secoli. Il nome di Baudelaire, che di opere a suo carico ne conta diverse, non necessariamente inferiori alla più famosa, viene e sempre verrà ricollegato a I Fiori del Male. La raccolta, uscita nel 1857, contava in origine cento poesie ed era divisa in cinque sezioni: Spleen e Ideale, Fiori del Male, Rivolta, Il Vino, La Morte. A seguito della condanna per oltraggio ai buoni costumi, fu costretto a rimuovere sei poesie incriminate di diffondere messaggi volgari, eccessivamente sensuali, se non addirittura satanici.

Ne derivò una seconda edizione dell’opera, che uscì nel 1861. Le poesie condannate sparirono, ma al loro posto inserì trentadue nuovi componimenti e introdusse una nuova sezione, Quadri parigini. Che l’autore si proponesse di suscitare forti reazioni, fu chiaro ben prima dell’edizione del 1857, quando, di fronte al dilemma del titolo, oscillò per molto tempo tra I Limbi e Le Lesbiche.

Per quanto il primo rendesse meglio l’idea del sentimento che nell’insieme Baudelaire voleva comunicare, cioè la condizione del poeta – che poi è quella dell’uomo in generale – schiacciato tra Paradiso e Inferno, non fu accolto per gli evidenti riferimenti religiosi che poteva ispirare. Il secondo, invece, fu giudicato talmente provocatorio dalla sua cerchia di amici, dal dissuaderlo fin da subito. Il titolo definitivo, I Fiori del Male, suggeritogli dallo scrittore Hippolyte Babou, si pose come il giusto compromesso: non troppo ardito, ma nemmeno troppo arrendevole e lontano dallo spirito dell’opera.

In cerca di un posto migliore

È un’esistenza difficile quella che emerge da questi versi. Baudelaire ama perdersi per le strade di Parigi, frequentare i bassifondi, toccare la miseria, sentirsi legato agli altri che, come lui, subiscono le prepotenze del destino e vivono ai margini di una società che li annienta e li ignora, in mezzo a tanta folla. Baudelaire sente il bisogno di elevarsi – Elevazione sarà proprio il titolo dato ad una di queste poesie – di redimersi da una sorta di peccato originale che lo rende tanto inappagato e infelice. Ma non ci riuscirà con le sue sole forze.

Perché, per quanto senta di voler respirare aria pulita, librarsi oltre le nuvole, così leggere, così spensierate, sa di appartenere a questo mondo di fango e sporcizia. E quasi li invidia quelli che per natura sono condannati a ignorare le forme del mondo, il caos del mondo, gli uomini che hanno perso il senso della vista (I Ciechi), che guardano coi loro occhi opachi verso l’alto, il cielo, che non sanno neppure di che colore sia.

“Ubriacatevi di vino, poesia o virtù, ma ubriacatevi!” Non è rara la metafora del volatile, si tratti di un albatro o di un pipistrello che si dimena in una stanza in cerca di una via d’uscita. Non è rara perché la voglia di evadere, guadagnare una condizione diversa, migliore, c’è sempre, come ci sarà sempre la consapevolezza di un’impossibilità di fondo. Se le cose stanno così, cosa resta da fare? Scappare, anche se solo momentaneamente, ricorrendo ai mezzi che sono alla portata dell’uomo: l’alcol, le droghe, i viaggi verso terre lontane, incontaminate.

“Bisogna sempre essere ubriachi, ecco tutto, ecco l’unica questione: per non sentire l’orribile fardello del tempo che rompe le spalle e piega a terra, bisogna ubriacarsi senza tregua. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù, a piacere; ma ubriacatevi” si legge nei Poemetti in prosa, una delle ultime opere composte prima di morire. E se ciò non fosse possibile? Se il vino non bastasse a dimenticare? Se la virtù non servisse a contrastare il male? Be’ a quel punto ci sarebbe sempre una soluzione a portata di mano, prima della morte: guardare in alto, in cielo, e volare via, dove si perde lo sguardo, dove giocano le nuvole

Massimo Vitulano
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