Su Corpo striato, di Riccardo Frolloni

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Disclaimer:

Questa che segue non è una recensione né un’analisi ma un consiglio di lettura, il primo del nuovo anno, sincero, importante, doveroso. Non è una recensione, dicevo, perché detta in tutta sincerità, aggiungere parole a un libro che non ne ha bisogno, che anche da solo è bello e completo, è sempre un po’ pericoloso e talvolta si raggiunge il risultato opposto.

Il libro in questione, che è una raccolta di poesie, è Corpo striato, di Riccardo Frolloni, uscito per i tipi di Industria&Letteratura a giugno 2021 ed è, senza esagerare, uno dei migliori libri di poesie dell’anno appena terminato.

Il corpo striato

Il titolo fa riferimento a una parte del cervello, quella che controlla tutti i movimenti del corpo, e nel libro di Riccardo Frolloni questa parte raggiunge il posto d’onore in quanto grande assente (o quasi) col compito di segnare uno stacco, una differenza. Differenza tra chi può muoversi – generalmente i vivi: “noi ci muoviamo” (movimenti IX)  – e chi invece non può più farlo – generalmente i morti, il cui corpo striato diviene organo completamente inutile: “era movimento quello che mancava a mio padre” (sempre in movimenti IX).

corpo striato riccardo frolloni
Corpo striato, di Riccardo Frolloni. Industria&Letteratura, 2021.

Della morte e della vita

Il libro di Riccardo Frolloni si apre con una dedica incisiva, urgente, senza giri di parole: “a mio padre morto” ed è formato da trentaquattro componimenti dai titoli principalmente in serie – sogni, movimenti, materiali, più due preghiere, fasi I, II, III, IV, V e VI e memoria 0 – in cui l’autore racconta il suo cammino di elaborazione del trauma. Il lettore però stia tranquillo perché non troverà il ripiegamento su sé stesso da parte di chi ha subito la perdita, né pathos eccessivo e disturbante, ma il racconto – e in questo lo stile narrativo di Frolloni riesce magnificamente – della vita, di chi se ne è andato e di chi rimane. E ancora, non la storia di una morte (e di una vita, e di una persona), come anche l’autore ha voluto ribadire in una delle due note finali del libro, ma della morte, con annesse tutte le sue conseguenze e le sue urgenze, anche burocratiche, che tolgono tempo e diritto al dolore: “Nel giro di due settimane dovetti imparare/di polizze sulla vita, rischio incendi, mezzi, tutto” (movimenti IV). In movimenti III leggiamo:

Quando riaprimmo il negozio era ancora tutto lì,
nessuno aveva consegnato i pantaloni accorciati, il vestito col tulle –

per mesi da dietro il magazzino
rumori di camicie scartate, la scala di alluminio che si sposta da sola –

mia madre prima di entrare dice mi tremano le gambe
la sento appoggiarsi a fare le poche scale, tutta bianca nell’estate.

Subito ci furono giorni di cose da fare, banche, assicurazioni,
e non una parola

                          come una spinta da dietro, da sotto le ascelle
ti porta, ti fa imparare alcune formule sempre buone:

esserci,
                            col fantasma che si aggira ovunque.

Tolto l’antifurto e accese le luci, tutto era ciò che era,
il negozio di una vita, gli dicevano

ci morirai qui dentro e invece no
è morto a casa, in bagno, mentre si lavava i denti

e non una parola.

Su Corpo striato, di Riccardo Frolloni 1
Riccardo Frolloni

La raccolta appare come un tentativo filiale di ricordare e, ricordando, trattenere il padre prima che la memoria si perda un poco, come sempre accade, ineluttabilmente. Del padre già “sfugge la sua voce, ecco l’amnesia, questo mulinello continuo che inghiotte/le paure, le debolezze” (memoria 0), e ancora, versi dopo: “dimentico e perciò narro, costruisco”. Non solo narra, il poeta, ma costruisce; è il creatore divino e assoluto della sua opera, capace attraverso la narrazione di rimettere in moto persino il corpo striato di chi non c’è più. E non a caso infatti in alcuni sogni (ma anche in alcuni movimenti, nei quali il figlio ricorda) viene descritto un padre energico, vigoroso, in salute. Come nel primo componimento, sogni I:

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria
leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

Su Corpo striato, di Riccardo Frolloni 2
Languide istantanee polaroid, precedente raccolta di Riccardo Frolloni

O in sogni II:

Difatti quella fu anche l’estate che senza preavviso si unì a me
e ai ragazzi per la camminata di due chilometri e mezzo una sera
particolarmente calda e anche lui, buttando via i vestiti,
corse urlando in pantaloncini sull’orlo del ruscello e si tuffò

ma pesava ducentocinquanta libbre e il tempo era stato secco
e si trovò in tre piedi d’acqua e quasi si ruppe un femore –
spezzò quasi il mio cuore
                                              la visione di lui così felice –
 […]

Di contro, è un padre che nei ricordi del figlio parla poco e nei sogni non parla per niente, forse anche per via di quella difficoltà nel ricordare la voce accennata sopra. Il padre “pensa cose confuse che non sa esprimere” (sogni IV) e quando lo fa inevitabilmente si rinnova la distanza (e caratteriale e fisica, altre volte) col figlio. Come in movimenti II:

La prima a leggere le poesie fu mia sorella, per anni
nascosi questo me stesso, poi un libro e anche mio padre
ebbe la sua copia, non festeggiammo, nessuno disse niente, io
non volevo se ne parlasse, era difficile da spiegare e mi sbagliavo.
                                                     Dopo qualche tempo
passeggiando per il pincio chiesi
se lo aveva letto, se gli era piaciuto –

c’era sempre imbarazzo a parlare di poesia, di filosofia, di cose così,
ogni volta mi ripeteva le parole dal padre                      non ti fidare

dei filosofi, non ti fidare, abbozzava qualche spiegazione, come a dire
ti fregano e ne rideva, ma anche altro, una specie d’impotenza
                                                      li chiamava         pensieri, c’ho i pensieri

confusi, fitti, e le parole mancano,
                          le parole

non bastano mai. E litigavano, si dovevano decidere
chi preferire e da mio padre non una parola

sbatte una porta
                                    e tutto cambia.

Col tempo capii che ognuno percorre la parabola della propria intimità
da solo, come senza legami di sangue e anche le storie che combaciano,

le fotografie in cui siamo riuniti, dignità e dolore
come fatto privato, il lutto allo specchio,

uno ingrassa uno dimagrisce, ci esaminiamo giornalmente,
prendiamo medicine e ne facciamo un rituale. Alle feste

vorremmo dirci tutto, ma meglio far finta di niente,
                               ora che ci manchiamo molto più di allora –

rispose
                quelle poesie
                                   sono terribili
, e in una di quelle scrivevo

se papà è stanco/dio è stanco, ma certe cose sono quello che sono
e la poesia
          detta un precedente – non avevo dio prima del padre

stupidamente gli chiedo come stai
dove sei, se puoi, aiutami.

Una figura solida, importante, un punto di riferimento (“Se mio padre dice anima allora io ci credo”, movimenti VII) dal quale però il figlio prende sempre un poco le distanze, che si concretizzano in piccoli gesti di affettuosa ribellione con lo scopo di non assomigliare (mai) troppo al genitore, e per la classica paura di non saperlo eguagliare (vedi sopra sogni I), e per il desiderio di formarsi come identità nuova. In sogni VI, scrive Riccardo Frolloni, “incontravo mio padre da qualche parte in città, mi regalava dei soldi e io li perdevo”. Un altro motivo di questa voluta distanza si ricollega poi a quel non saper dire, non saper esprimere senza paura, pudore, vergogna: “scelgo di accarezzargli i capelli/cortissimi, come voleva fossero i miei, ma c’era troppo bene poi” (movimenti IX). Alla fine, in preghiera II, questo volere si fa più forte e ha a che fare col dolore che la somiglianza col padre potrebbe causare in chi rimane:

[…]
io per questo di notte cammino scalzo,

farmi parte di questo niente, per paura
che ti possa sembrare qualcuno.

Di tante altre cose si potrebbe parlare, per esempio il vento, che come tutto il resto nella raccolta Riccardo Frolloni muove con mani di creatore: “vivendo c’è sempre vento” (movimenti X). Ma questo scopritelo da soli.

Federica Gallotta
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