Neanche gli Dei è uno dei pochi romanzi stand-alone scritti da Isaac Asimov. Pubblicato nel 1972, fu il primo in cui lo scrittore statunitense si cimentò nella rappresentazione degli alieni. Per sua stessa ammissione, si tratta di uno dei suoi lavori più ispirati.
Del famoso scrittore russo, Isaac Asimov, i più avranno letto l’arcifamosa Trilogia della Fondazione. Opera che, permettetemi di dirlo, complice anche la traduzione dell’epoca – parliamo degli anni ’50 – che tendeva ad un’inutile ampollosità, ha percorso sì i tempi nella visionarietà dei concetti espressi, ma allo stesso tempo risulta decisamente mal invecchiata.
Contrariamente al corpus di lavori sui Robot, e ad un romanzo, un unicum nella letteratura di Asimov: Neanche gli Dei, primo lavoro in cui lo scrittore si cimentò nella descrizione di vita aliena.
Asimov era una persona non comune. Unico sopravvissuto di un’epidemia di polmonite nel paese russo in cui era nato, era figlio di un ebreo ortodosso e parlava fluentemente russo e yiddish. Trasferitisi in America, New York, gli Asimov rilevarono un’attività di dolciumi/edicola, e il giovane Isaac era un accanito lettore.
Ebbe una fiorente vita accademica: si laureò in chimica nel 1948 – formazione comune fra gli scrittori, si ricordi Primo Levi e Michael Crichton. Proprio attorno alla chimica ruota la trama di Neanche gli Dei, romanzo del 1972 originariamente intitolato The Gods Themselves. Che ha vinto praticamente ogni premio di settore e non che vi viene in mente – Nebula, e Hugo Awards compresi.
Io sono una dottoranda in biotecnologie, e, per quanto ho visto, certe dinamiche nella ricerca sono sempre le stesse. C’è una certa tendenza alla predazione, in una giungla fatta di delicatezze e politichese che esula dalla ricerca vera e propria; Asimov pone in tale ambiente i suoi personaggi, dei fisici nucleari e dei radiochimici (Legasov, il famoso scienziato che scoperchiò lo scandalo dei reattori di Chernobyl, lo era).
Un bel giorno, nel 2070, anni dopo la solita catastrofe, Frederick Hallam entra nel suo laboratorio e si siede dietro la scrivania. Su di essa c’era un contenitore, originariamente, di Tungsteno, che magicamente era divenuto plutonio 186. Voi vi chiederete: che caspita significa?
Ci sono 4 forze fondamentali nella fisica, ciascuna mediata da un bosone (sì, tipo la particella di Dio): elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole.
La nucleare forte tiene incollati i quark che compongono protoni e neutroni, e a sua volta tiene appiccicati questi ultimi nel nucleo atomico (per una più completa disamina di ciò vi rimando qui). Ciascuna forza ha una certa intensità in valore assoluto. Nel nostro universo, con le nostre leggi fisiche, il Plutonio 186 NON può esistere in forma stabile.
Hallam, un ricercatore a tempo determinato non brillante ma indubbiamente furbo e arrivista, si mette a studiare il materiale. E pubblica nelle principali riviste del campo una conclusione sconcertante: nel barattolo sulla sua scrivania c’è stato lo scambio di materia con un altro universo, in cui la forza nucleare forte è un po’ più forte ed il plutonio 186 può esistere. Dunque, pensa Hallam, possiamo scambiare materia tramite tale portale: la Pompa. Infiniti quanti di energia totalmente pulita, a favore di gradiente. Hallam vince il Nobel, chiaramente: ok, non è stato come per Mullis che ancora asserisce di essere in debito con gli alieni per il suo Nobel riguardo la PCR, ma Asimov aveva una visione estremamente lucida della serendipità. O della botta di culo immeritata.
Trent’anni dopo, trent’anni di energia pulita e rinascita, in cui nessuno si era posto il problema di cosa esistesse dall’altra parte del buco, Peter Lamont sta scrivendo una review riguardo la Pompa. Si pone, finalmente, il dubbio su cosa ci sia, al di là del buco. Peraltro, Asimov dà per scontato – come effettivamente ancora è – che nel 2070 la lingua etrusca sarà ancora un mistero, e così contatta un famoso linguista, Mike Bronowski, per inviare messaggi criptati tramite la pompa. E scoprire, così, per la prima volta, vita intelligente oltre a quella umana.
Dall’altro lato del buco, assistiamo al genio di Isaac Asimov al suo meglio. I para-uomini, come Lamont e Bronowski li chiamano, sono creature che vivono alla luce di una pallida stella rossa morente. E sono quanto di più lontano dagli esseri umani che si possa immaginare.
Gli alieni vivono in triadi, formate da un Paterno, col compito di accudire il focolare domestico, un razionale, una figura autoritaria e dalla mentalità scientifico/militare, ed un emotivo, che ha il compito di fornire il collante tra gli altri due componenti. Qui, con atomi più piccoli dei nostri, la materia ha caratteristiche esotiche e il concetto di impenetrabilità non esiste: la vita – in particolare per la protagonista, l’emotiva Dua – può compenetrare e fondersi con la materia. La triade di Dua, all’apice della società aliena, entra in contatto con gli umani. La Pompa è pericolosa, dicono gli umani.
La sezione finale di Neanche gli Dei si svolge sulla Luna. Sì, perché la Luna, prima della catastrofe, era stata colonizzata. Scavata come una forma di groviera, sino a raggiungere le enormi riserve di acqua liquida presenti (e non ancora scoperte negli anni ’70) sul nostro satellite. La società, lì, viene descritta da Denison, un collega di Hallam, che vi si reca in visita. Ecco, altra consuetudine della ricerca accademica: anche se fai una scoperta rivoluzionaria ma non hai abbastanza palle, se non sei il più opportunista, sei fuori. Hallam ha fatto fuori Denison, che fa l’impresario, e se ne va a visitare la Luna, mondo di bagordi sessuali, ingegneria genetica, sport a bassa gravità, cibo sgradevole ma totale indipendenza energetica. Contrariamente alla Terra, che cannibalizza un altro universo.
Con Neanche gli Dei, Isaac Asimov raggiunge finalmente la scorrevolezza nella lettura che mancava nei suoi primi lavori, ed una visionarietà estremamente concreta, unita a ricche descrizioni mancanti nella sua prima carriera, che rende questo lavoro uno dei più importanti per la letteratura fantascientifica. La sociologia delle triadi appare estremamente credibili, le ragioni positiviste e riduzioniste degli umani inventori della Pompa ci ricordano quei boomer che, con l’utilizzo dei combustibili fossili, ha distrutto l’unico pianeta che, ad ora, sappiamo possa sostenere la vita. Peraltro, Asimov rintraccia nella fortuna intrinseca all’umanità – l’esser nata in un pianeta riccioli d’oro, l’essersi evoluta in gentili e fertili pianure, l’avere un pianeta abbastanza grande rispetto alla media nella galassia (altra cosa che Asimov non sapeva, non erano stati scoperti ancora esopianeti) – la sua incapacità di prendere decisioni che vadano più in là dell’immediato. Perché, fondamentalmente, ci dice Isaac, morto di AIDS vergognandese, continuiamo ad essere gruppetti sparuti per la savana, capaci di progettare solamente lo spostarsi dall’ombra di un baobab all’altro, di attendere le piene ben prevedibili del Tigri, del Nilo, dell’Eufrate. Lontani dalla Luce, nella gelida luna, coloro che si professano una specie a parte fioriscono; sotto quella di una stella piccola e morente, le triadi cercano la salvezza e non si arrendono. Loro sono in grado di fondersi, sia fra loro che col proprio mondo. Possono sentirsi, capirsi, comunicare anche con l’inorganico. E gli umani?
Gli umani pensano al primo nome su Science.
Non contano le scemenze, le bugie, che si andranno a scrivere sul paper: non conta che i peer reviewer siano stati corrotti. Non importa che l’universo collassi, che i poli si sciolgano: quaggiù, alla luce del Sole, soli e idioti, bigotti e pretenziosi, sempre rimangono, ancorati dalla loro gravità troppo forte. Lontani dalle altre stelle. Condannati nella loro solitudine che non sanno e non vogliono sconfiggere.
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Scusa ma dalla tua recensione ho la sensazione che abbiamo letto due libri diversi. Sbaglio o i para uomini alla fine se ne sbattono il cazzo se pur di sostenere energeticamente il loro universo avrebbero fatto fuori il nostro? In questo non mi sembrano tanto migliori degli umani.
Ciao Omar! Diciamo che l’ho vista un po’ diversamente. I Duri se ne sbattono il cazzo, le triadi che li formano, no. Però il mio accento non era tanto posto su questo, quanto su come sia sociale la loro civiltà: condividono tutto, essendo sostanzialmente incorporei. Grazie per aver letto!