Sulla mappa, la X di Robin Corradini

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Sulla mappa, la X (Delta 3 Edizioni, 2022) è la prima raccolta poetica di Robin Corradini, antropologo epicureo (per definizione affettuosa della scrivente) proveniente da studi classici; la persona come la penna: puntuale e precisa. Raccolta che ho avuto la fortuna di veder formarsi, crescere e nascere (in questo la poesia funziona diversamente dalla vita) e che ancora – e questo è un bene – mantiene ai miei occhi qualche mistero, sebbene le riletture siano state molte, tre solo per scrivere queste righe iniziali. E non l’ho capito mica cosa sta a significare la X del libro, né cosa rappresenti la mappa sopra la quale si segna; e menomale. Le stratificazioni del libro, le sfaccettature, le sfumature sono così invitanti, come sirene cantanti sulle rocce, che chi legge – esattamente come l’autore – perde il nord, la bussola, non si orizzonta, si disorienta. Pazienza, anzi, ancora: menomale. Forse sta proprio lì il punto: E il naufragar m’è dolce in questo mare, banalmente citando.

Sulla mappa, la X di Robin Corradini 1
Sulla mappa, la X, edito nel 2022 da Delta 3 Edizioni

La raccolta, divisa in cinque sezioni (Il senso del silenzio; Il mio nome è un cassetto chiuso; Sessantaquattro denti in tutto; Zemlja; La vita fantastica) conta sessantanove componimenti, al di là della cui variatio apparente è possibile cogliere costanti e caratteristiche comuni, proprie della scrittura di Corradini.

Dei tanti e vari temi presenti, mi soffermerò su alcuni, legati inevitabilmente tra loro, e che sono la perdita, la paura, l’attesa e il gioco.

La perdita

Nelle prime pagine si legge “Io sono un’ostrica / che ha perso la sua perla” (pag. 11. Da qui in avanti le pagine verranno indicate con il solo numero). Il verbo perdere (nelle varianti di radice perd– / pers-) ricorre dieci volte. Il poeta perde sé stesso, perde la persona amata, perde per sempre le cose mai fatte, si perde per ritrovarsi. E tutte le perdite – si scoprirà – discendono da una antica e relativa all’infanzia del poeta, durante la quale la perdita di alcuni giochi da spiaggia – o meglio, il furto da parte del mare – acquista un valore simbolico tanto da influenzare la percezione di tutte le perdite future:

Ti ricordi quel giorno
quando il mare s’allungò
e fece preda delle nostre cose?
Non ho più avuto un rastrello
tutto mio, né formine di plastica; finì allora
il tempo dei giochi da spiaggia.
Avevo una manciata di anni e osservavo
quel furto con gli occhi tragici
dell’attore in scena, fingendo di non
soffrire e scegliendo come unico senso
del luogo lo stupore scientifico
del geografo che mappa con gli occhi,
ma si sporge e perde
il morso alla terra coi piedi,
non potendo andare oltre le nebbie
che segnano la fine del mondo.
Ritiratasi l’acqua, solo quello stupore
m’era rimasto e un pianto segreto,
nascosto nel fondo del cuore, alla fine
del mondo interiore.
[…]

(32)

L’infanzia è bacino di ricordi, pozzo in cui sprofondare, culla dei traumi. Un ragazzino “un po’ triste, un po’ solo” (30) che ha vissuto il collegio e subito la disciplina mischiata a castighi, diventa un adulto che inevitabilmente lotta contro la paura costante, l’inadeguatezza e spesso e mal volentieri resta “nell’incastro, nell’agguato autoideato ormai tanti anni fa / sotto la spinta di chi disse, triste, a un ragazzino / non potrai farcela mai” (19). Diventa un adulto che sogna il collegio, nello specifico la fuga da: “Il sogno così continuava: da un piccolo fuoco / a un incendio del bosco, e allora provavo a scappare, a salvarmi / da ogni castigo […] io voglio / bruciare, io non voglio mai più farmi male.” (21). Prova, il poeta, prova spesso, e il verbo ricorre varie volte (“provo a pregare” 9; “provo a levare il bianco dai vetri, / ma”, 93), tuttavia sovente non riesce o riesce soltanto (“riesco soltanto a individuare un vuoto / in fondo”, 28; “quando voglio non riesco, ho i polsi legati”, 31; “l’idea giovane di te che soltanto / riesco a avere”, 51); mai un sono riuscito. Il vissuto e sedimentato porta quindi all’autosabotaggio e alla paura costante: di perdere, di sbagliare, di non riuscire. Il verbo vincere, al contrario, ricorre coniugato e rivolto all’io due volte, in “Mi sono messo a scrivere / per vincere la noia”, che denota un riscatto possibile attraverso la poesia, e in “Io vinco sempre, soprattutto / se perdo” (63) associato comunque al suo verbo contrario e di cui parleremo più sotto. Assenti le forme verbali in vins– e vint-, che confermano quanto scritto.

Ma lasciamo stare il lessico e torniamo a quel bambino “che ha visto / i suoi giochi sparire con la risacca” (34) e che vede reiterarsi la stessa scena in altre forme (“il mio abbraccio / prima s’avventa e poi si ritrova nel nulla”, 33). Da lontano, grida al poeta l’attenzione e la protezione che forse non ha avute abbastanza (“piccolo me che proteggo in quella stanza del cuore”, 30) e lo allerta sulle possibili perdite, come un monito o una minaccia. Ecco allora, la consapevolezza del poeta adulto che nella poesia si rivolge al padre, in cerca di risposte:

Ho capito, papà.

Non è la risacca
che ruba.

Siamo noi che scegliamo
di lasciarci
andare.

(35)

Non è la risacca – pericolo, minaccia, paura – che ci ruba, ci blocca, ci inibisce; la scelta è tutta nostra e possiamo decidere se ascoltarla e farci condizionare – destinati ad un’esistenza senza più giochi da spiaggia – oppure buttarci, fare tuffi, castelli sulla riva, accettando il rischio come parte integrante e non escludibile della vita.

La paura

Certo è che l’inganno (e la caduta, la paura, la paura della caduta) è sempre dietro l’angolo e infatti “Come se niente fosse, continui / a ingannarmi e fai come Marte che / un attimo dopo è scomparso ed è dietro di me.” (44). Ecco la paura atavica e ben radicata cosa fa: preclude il godimento e ne impedisce il raggiungimento. Anche quando il dolore (qui sotto forma del dio della guerra e della distruzione) sembra essersi dileguato, il timoroso lo immagina alle spalle, anche senza la certezza che effettivamente lì stia. Una paura che neanche la cosa amata (nella poesia che segue il fiume Nišava, caro al poeta, la distanza col quale è accorciata dal ricordo e l’immaginazione concesse dal momento poetico) riesce ad impedire.

Mi sto annoiando e sento
che la Nišava mi chiama, quel fiume mio
lontano che mio non è
eppure scorre,
se chiudo gli occhi.

Io non sono uomo d’acqua,
non nuoto e ho paura – tanta –
del profondo e dell’ignoto sul fondale.
Se fossi una creatura come quelle,
sarei di certo un gambero
sgraziato e svelto nel celarsi
dietro a un sasso, a un tronco morto.

Nišava, ritornerò e sarò
solo un uomo
a piedi nudi
nell’acqua,
che se la ride.

(94)

Sulla mappa, la X di Robin Corradini 2
Robin Corradini

Una cosa però non manca mai nei testi di Corradini, e non è la banale speranza in futuri migliori; è la volontà di superamento delle paure e la seguente sicurezza (data qui da due futuri semplici: ritornerò e sarò) di un cambiamento in meglio. Crollare, bloccarsi, lentamente e con fatica ricomporsi in forme nuove e più solide: queste le azioni che attraversano la raccolta. Lentamente e con fatica perché “L’esistenza è giusto una metafora / della montagna” (29) e non si nasce certo scalatori, e non lo è nato certo l’autore, che per “la via della salita” vede (ingenuamente?) “solo cespugli di lamponi / e fiorellini sparsi”. Anche qui, comunque, la chiusa ottimistica: “Tienimi per mano / ancora un po’. / Sono sicuro che, / prima della cima / avremo ancora tanti fiori / da guardare”. Non da soli, quindi, si riesce in questo lavoro stancante di (ri)salita; preziosi aiutanti sono le persone care – amici perlopiù – ma soprattutto, come Corradini precisa in due testi delle prime pagine (14 e 15): una terapia e una terapeuta, con le sue “benedizioni / sottili” a cui, ahinoi talvolta, il poeta fa schermo.

L’attesa

Il blocco, sovente, ha forma di un riposo, nell’attesa della ricomposizione, della guarigione, del placarsi dell’infiammazione per il troppo freddo:

[…]
è sufficiente il freddo preso
per tutti questi anni. Riposa un po’.
Dopodomani cercheremo
una nuova casa, un bel camino.

(22)

Se si mette nero su bianco che “La paura scompare / prima o poi” (20) allora non resta che attendere che ogni cosa si aggiusti, si plachi, svanisca. La parola attesa (nella variante sing. e plur.) ricorre sette volte, tre nella locuzione in attesa. Ed è comunque snervante, corrosiva, dal moto incessante. Se a pagina 11 “è un mulinello nella pancia”, a metà raccolta (55) l’immagine viene ripresa, ribadita e rafforzata: “l’attesa è sempre un mulinello nella pancia”.

Il gioco

Ma torniamo alla paura che prima o poi scompare. A proposito, ne Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino scrive: “L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. Arrivare a non avere più paura, questa è la meta ultima dell’uomo”. E quando la (ri)salita sembra portare i suoi frutti, ecco che Corradini torna da quel bambino per prenderne però solo l’aspetto giocoso e spensierato; in questo modo può aprirsi alla gioia dell’inconsapevole con la consapevolezza dell’adulto (curioso unire la prima e l’ultima parola della raccolta per formare l’espressione irrazionale adultità):

Non voglio intaccare l’illusione del tempo
come dimensione, ma giocarci sì, trasformarla
in carta velina da mettere su un pettine e soffiare per
fare una musichina, una melodia stonata e vibrante,
come un bambino, come il bambino, quello
ideale, una seconda chance dell’immaginazione.

E allora, visto che per me solo lo spazio
esiste, prendi questa distanza, tagliala a strisce e fanne poi
coriandoli, inventati un carnevale
[…]

(60)

Un adulto pronto al gioco, accolto con entusiasmo e che spesso presuppone come altro giocatore la persona amata. E nel gioco d’amore, nel quale si prova piacere più nel dare che nel ricevere, la perdita è comunque una vittoria:

[…]
e con te ci faccio quel gioco
vediamo chi vince, stringi forte col dito.
Io vinco sempre, soprattutto
se perdo.

(63)

La parola gioco e derivati ricorrono undici volte, tanto da rendere quello del gioco uno dei temi principi del libro:

Facciamo finta di niente,
anzi, facciamo
finta di tutto
[…]
Fingiamo di essere gatti
e soffiarci per gioco
[…]

(67)

Sai che bello sarebbe
costruire una ninnananna con le sillabe
come pezzi di lego
tutta storta […]

(68)

[…]
Ti ho sfumato il viso, col dito strusciando come si fa
coi trucioli di lapis sul foglio […]

(91)

Ottocentocinquantatré colpi di tibia
sopra lo sterno, suonarmi
vorrei come uno scheletro alticcio,
che ride, staccarmi
le ossa e rimontarmi a casaccio e
chiederti: «Come sto
con le scapole a orecchie,
le vertebre a collana e
il bacino a tiara sulla fontanella?»
E poi: «Non senti anche tu
la solitudine
dello ioide?»

Riporto a memoria,
a filo di labbra
tutte le declinazioni del greco,
per fare ordine
in questo mucchio d’ossa.

(17)

Giocosamente smontarsi, per vedere come si è in forme nuove e bizzarre; smontarsi e intanto scherzare, con quella nota autoironia di chi teme le conseguenze e mette le mani avanti per paura. Ma dopo: “fare ordine” necessariamente, attraverso un processo lungo che ha bisogno della nenia meditativa delle declinazioni del greco antico. Una ricomposizione abbisogna perciò di una distruzione, di un crollo precedente. Come quando, per mettere ordine all’armadio, si buttano tutti i vestiti sul letto; come quando non vale la pena ristrutturare, meglio demolire e ricostruire di sana pianta. Da questo punto di vista, “il ritorno dei crolli / strutturali di un tempo” (16) fanno molta meno paura. A proposito, a pagina 69 si legge:

Lascia che cada a pezzi la casa,
ricostruiremo un’alcova segreta nel chiuso
di un pozzo di luce, la stanza regina
di un nuovo rifugio
[…]

Sulla mappa, la X di Robin Corradini 3
Robin Corradini

La mappa e la X

Arrivati fin qui, cosa rappresenta la X del titolo? Potrebbe apparirci ora come qualcosa che occorre all’“ostrica / che ha perso la sua perla” (11) per poterla finalmente ritrovare? Anche fosse, come sempre non è così facile e spesso è la stessa X a non farsi trovare sulla mappa, a non farsi cogliere o interpretare:

[…]
Nessun vaticinio, non scorgo
uccelli e non li capirei,
starei a guardare
come volano
[…]

(11)

Infatti, il problema sovente non è l’assenza di una mappa – o la sua indecifrabilità – né la natura multiforme della X, quanto l’inadeguatezza e l’immobilità del viaggiatore, che abbiamo conosciuto come intorpidito e incartocciato su sé stesso. Bloccato tra il volere e l’incapacità di farlo (e non per assenza di volontà: “voglio” così coniugato ricorre nove volte) per paure, per irrisolti legati all’infanzia e di cui abbiamo parlato sopra:

[…]
(mi guardo indietro senza ancora essermi mosso). Una morsa
grigia, denti rossi sulle gambe […]

(19)

L’attesa coincide con il momento di preliminari aggiustamenti prima della (ri)partenza, spesso infatti rimandata. La X avrebbe il compito di mettere ordine sulla mappa che è un “caravanserraglio di emozioni” (22) e serve come educazione ai sentimenti, questi fiumi in piena da far confluire nel modo giusto, perché si eviti che finisca “sempre più asciutto il pozzo” (45) e l’“inadeguatezza / che mi riveste come / una tunica” (12) si attacchi alla pelle in maniera irreversibile. “L’analfabetismo dell’umore”, come lo definisce Corradini in un testo (46), presenta i suoi sintomi sotto forma di “grigiore / dietro la nuca, una pressione, / un rimbombare ansioso dentro il cranio” e hanno come causa

il non sapere come fare,
se muoversi
o tentennare,
se chiedere o tacere,
se abbandonarsi alle domande o
frantumarle sotto ai denti.

(46)

A pagina 66, in Vorrei ci fosse in qualche luogo la stazione, torna la presenza dell’indecisione, unita ad una richiesta di aiuto nella scelta. Nel testo, che riporto per intero, sono condensati molti dei temi della scrittura di Corradini: il dubbio, il blocco, l’attesa, il gioco.

Vorrei ci fosse in qualche luogo la stazione
giusta per decidere quale treno prendere,
quale lasciar stare. In attesa, perdersi
tra le fughe nella pavimentazione, dove giocano
a scacchi molto lentamente fiori,
erbe selvatiche.
Forse ti incontrerei lì e l’attesa
sarebbe più gradevole, meno interessanti
i treni di passaggio: due occhi in più, un’altra mente
per considerare, sessantaquattro denti in tutto
per farsi una risata. Alzarsi, o rimanere: svaporerebbe
l’ansia.

Ulisse involontario

La X sulla mappa non indica comunque una meta esotica, pensata, sognata e mai raggiunta prima; rappresenta un luogo (più luoghi) a cui tornare, per chiudere il cerchio, per far pace con sé stessi e perdonarsi. Quello di Corradini è perciò un nostos, nello spazio ma soprattutto nel tempo, e lui diventa un “Ulisse involontario” (13), perché inadeguato, a tratti inconsapevole, “meditabondo, girovago” (58). Un viaggio anche nel passato, attraverso il ricordo, il sogno e l’immaginazione, fino alla sua infanzia se necessario; fino al mare, dove ci sono le conchiglie, anch’esse “tornate / a casa loro”.
E involontariamente attraversa ogni luogo – aperto, chiuso, interiore, sognato – assomigliando a volte più a Proteo, il vetusto dio marino con la capacità di assumere qualsiasi forma. Anche la metamorfosi ha il fine dell’autoconoscenza ed è sempre ben accolta (“Inizi pure il mutamento”, 23), almeno sulla carta. L’attesa, la stasi, l’aggiustamento, che sono tuttavia presenti, possono essere combattuti con i nuovi strumenti di cui la creatura mutata è provvista:

Inizi pure il mutamento, vagabondaggio
e tentazione della mente a sondarsi
e a obliquare la dinamica
dei miei pensieri. Sarò Corvo,
o Aquila?

Deciderà la sorte che mi deporrà qui
o lì, sopra la spiaggia, e per quattr’ore
sarò indiano Haida, per puntellare
i crolli della strada,
delle mie attese inermi.

Tanto c’è in questa raccolta e nella poesia di Corradini, che difficile (e inutile) sarebbe condensare tutto in una sola lettura. Il lettore verrà colpito dai luoghi, vicini ed esotici che costellano la raccolta, dalla presenza di termini ricercati e inusuali, spesso legati alla flora e alla fauna (viburno, onischi, convolvoli), dal ritorno sistematico quasi ossessionato a elementi dal chiaro valore simbolico (il mare, i fili, il vino), dall’uso non casuale dei modi verbali, in particolar modo del congiuntivo e del condizionale, propri del desiderio, della possibilità e dell’incertezza, dall’interesse per le lingue e la lingua in generale, di cui Corradini è amante e padrone. Il mio è un invito sincero a leggere Sulla mappa, la X, e più e più volte anche, ché dentro c’è l’uomo in ogni sua sfumatura, in un disegno schietto e autentico, senza costruzioni o schermi che ne proteggano la parte molle.

[…]
Non credo più ai condizionali dei tuoi discorsi
– che spezia assurda! –, condire
l’esistenza con promesse malandrine
(tradimento della vita, menzogna,
illusione di ostinarsi a voler esser ciò che non si è
o che si è solo in parte)
senza pensare che l’unica certezza
è provare a cercare un poco meglio,
un po’ più a fondo. La rarità di un certo istante di piacere
non ne qualifica la qualità o l’intensità: è
la preziosità non del rubino
o del giacinto in fiore sul mio davanzale,
ma dell’acqua per chi è perso
nel deserto e finirà morto di sete.
Tu lo sai bene, tu sei
il mio deserto. Ma io non morirò.

Per ultima e per finire, una domanda all’autore:

F: Qua e là, nei testi, si notano tracce di panismo, come per esempio nella poesia a pagina 56 (“La bocca, due acini gonfi / di mosto pronto a crepare la buccia”), a pagina 78 (“Hai rubato / le foglie di vite arrossata / per farne un vestito”), 79 (“hai dormito sempre / tra i lecci e i viburni”), 88 (“aggrappato / alla mia schiena-corteccia”), 90 (“Il mio cuore / invece / è un’arancia”). Che rapporto intercorre tra il corpo e la natura? Che ruolo ha in questo la poesia?

R: Questo panismo che vedi (e che effettivamente c’è) io lo definirei contemporaneamente panismo laico e infantile, perché la natura, per come la vivo io, è scienza e stupore meravigliato (come quando, per esempio, guardando i miei amati fiori di cicoria, rifletto sulla loro esistenza biologica, mentre sbigottisco per quanto siano belli). La natura, perciò, è la biologia che mi mette e mi tiene al mondo. Io stesso sono natura, ma con un altro fattore che interviene – e qui credo parlino i miei vecchi studi da antropologo: la poesia è la lente che mi metto davanti agli occhi per dare forma ai sensi e ai sentimenti e poi tradurli per chi mi legge o mi ascolta. È un frammento di quella cultura (in senso appunto antropologico) con la quale noi esseri umani solo possiamo vivere ed esprimerci. E aggiungerei a corollario che, in quanto fenomeno culturale e perciò sociale, la poesia ha anche facoltà di essere un linguaggio per l’incontro, con sé stessi come con gli altri e anche, appunto, con la natura.

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Per leggere la mia recensione su Corpo striato di Riccardo Frolloni invece clicca qui.

Federica Gallotta
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