Dinamici, stravaganti, singolari tanto nella loro personalità musicale quanto, purtroppo, nell’improvvisa e prematura fine del loro corso. Gli Arcane Roots con soli tre album all’attivo sembravano solidamente essere una delle migliori proposte nel panorama alternative mondiale prima di quella rottura che, nel 2018, come fulmine a ciel sereno decretò la fine di un progetto musicale che non sembrava essere in grado di sbagliare una singola canzone.
Il terzetto british formato da Andrew Groves (chitarra e voce), Adam Burton (basso, cori) e Jake Wrench (batteria) sembrava rispondere in tutto e per tutto alla definizione di “predestinato”
Già noti nell’underground inglese dal 2012 con il primo ep/album ufficiale, Left Fire, e poi saliti “alla ribalta” nel 2013 con il sensazionale Blood and Chemistry, gli Arcane Roots avevano iniziato a meritarsi l’attenzione del pubblico anche grazie ad aperture di tutto rispetto, come quella che li ha visti salire sul palco dell’Olimpico di Roma al fianco dei Muse proprio in quel Live che verrà, poi, immortalato per divenire uno dei tanti “live film” dell’iconica rock band inglese.
L’Ep Heaven and Earth, rilasciato nel 2015, sembrava confermare la crescita di una band che nonostante la giovane età si mostrava perfettamente conscia del suo potenziale e della sua personalità che, a breve, andremo a valutare più a fondo. Poi, dopo una lunga pausa, nel 2018 il terzo long play.
Il ritorno degli Arcane Roots avviene con un’opera coraggiosa in grado di stravolgere le carte in tavola e, purtroppo, forse pietra tombale di un progetto che sembrava mostrarsi come erede proprio di quei Muse che da anni ormai osservano come uccelli rapaci il mondo della musica (subendo tra l’altro di un eccessivo rilassamento). Nonostante la sua qualità strepitosa, l’innovazione e il coraggio intrinseco, Melancholya Hymns (è questo il nome della terza fatica della band) non vedrà alcun seguito, se non nel timido ep di remix Landslide. Ultimo rilascio prima di una rottura definitiva che, tutt’oggi, affonda ancora nel mistero.
Molti di voi non avranno probabilmente memoria di Groves and co, di quegli Arcane Roots che sembravano sempre sul punto di esplodere per salire sui palchi dei più grandi festival internazionali senza però riuscire mai a fare quel salto di qualità. Un salto non musicale ma, bensì, di pubblico. Adorati dai conoscitori, stimatissimi dalla critica musicale più attenta ma, purtroppo, per ragioni ancora sconosciute mai arrivati al “grande pubblico”. Ed è proprio questa mancata esplosione, unita all’incrinarsi dei rapporti artistici interni alla band e alla stravaganza di un terzo album che ha osato tanto (forse anche troppo) che forse ci ha privato di uno dei progetti rock più singolari e interessanti del panorama anglosassone e internazionale.
Quali erano, però, i tratti caratteristici predominanti degli Arcane Roots? Cosa li rendeva un fenomeno musicale così singolare?
Imprevedibili nella loro fusione tra pop, alternative e math rock. In grado di sciorinare con disinvoltura isterie chitarristiche, groove coinvolgenti ed aperture dal gusto spiccatamente “poppeggiante” e ad alto tasso di fruibilità, gli Arcane Roots nel loro prodotto musicale sono stati in grado di creare un qualcosa di dinamico, colorito, in grado di stare al passo dei tempi nonostante il ticchettio costante delle lancette.
L’irruenza di una Energy is Never Lost, Just Redirected, la delicatezza di potenti ballate come Belief o Hell and Highwater, la dinamicità del tapping di Tryptich o il groove impossibile da ignorare di Habibty erano elementi che, costantemente utilizzati in ogni forma possibile andavano a delineare un’esperienza d’ascolto variegata, dinamica e colorata. La timbrica vocale di Groves era solo la ciliegina sulla torta, in grado di divincolarsi tra vette altissime di voci di testa per poi finire nello “sfogo” quasi indemoniato di harsh vocal inaspettate ma incredibilmente azzeccate.
Con Melancholya Hymns, poi, la sterzata decisiva. L’elettronica prende il sopravvento, le influenze ambient della musica post rock (dal cui mondo abbiamo già analizzato i Mogwai) sovrastano la natura più isterica e “math” degli inizi ma senza tralasciarle completamente. La costruzione di ambientazioni accurate e profondamente studiate tramite l’utilizzo pesante di sintetizzatori va a diminuire il protagonismo chitarristico senza però inficiare l’efficacia dello strumento, sempre presente quando necessario un cambio di rotta, una divagazione rabbiosa, una spinta energica. Così nasce il costante climax ascendente dell’esplosiva Courtains, l’emotiva ed ipnotica Indigo, la feroce e slanciata Matter o la catchy e semiacustica Off The Floor.
Eclettici, dinamici ed estremamente comunicativi, gli Arcane Roots in breve tempo sono stati in grado di vestire differenti abiti risultando, sempre e comunque, una band capace di compiere scelte efficaci per quanto inaspettate
Vagliando le possibilità offerte dall’elettronica o portando allo stremo le possibilità di esecuzione offerte da un basso e da una chitarra, Andrew Groves and co. sono sempre riusciti a dare un’impronta ben precisa alla loro produzione, un’impronta chiaramente rivolta al futuro, all’evoluzione, alla creazione di qualcosa di nuovo e capace di ritagliarsi uno spazio più che meritato e personale nel panorama musicale.
Non è bastato, però, per il salto di qualità definitivo. Sono 32.000 i follower oggi presenti sulla pagina facebook che, ormai “morente” e probabilmente gestita dal frontman stesso, comunica la collaborazione di quest’ultimo nell’ambito della produzione musicale con l’amico e decennale collaboratore Chris Coulter. Solo 32.000 anime in attesa dell’esplosione definitiva di un astro nascente che, nel breve tempo a sua disposizione, ha giustamente “illuso” chiunque di poter stagliarsi nel giro di tre o quattro anni uno spazio tra le band più grosse del panorama musicale rock/metal.
Fossero nati nel 1999, quando Matthew Bellamy saliva alla ribalta con i suoi Muse dopo la pubblicazione di Showbiz, probabilmente ora staremmo osservando una delle punte di diamante del genere, leggendone le biografie, guardandone i concerti in palazzetti gremiti e ascoltandone gli album sempre al top delle chart.
I tempi, però, sono cambiati. Non basta più fare grande musica per diventare grandi e forse alle volte è proprio quella grande musica che costringe molti musicisti a rimanere piccoli, relegati li dove le case discografiche non osano andare, li dove il pubblico non vuole esplorare. Li dove, con le loro paure, alla fine compiono scelte drastiche, come quelle di abbattere un cavallo vincente che, nonostante le grandi prestazioni, sembrava non riuscire mai ad arrivare a fine corsa.
Ed è questa la storia singolare dei singolari Arcane Roots, arcano astro nascente della musica anglosassone che, con un pugno di canzoni, sarà comunque sempre in grado di stupire ed incantare tutti coloro che, anche solo per sbaglio, si imbatteranno in loro.
Leggi anche
- Vola, Friend of a Phantom: recensione - Novembre 26, 2024
- Kingcrow – Hopium: Recensione - Settembre 22, 2024
- Manuel Gagneux di Zeal & Ardor su Greif: intervista - Settembre 4, 2024