Uscito nel 1984, Crêuza de mä di Fabrizio De André rappresenta ancora oggi un’evoluzione artistica difficilmente replicabile, un album etnico ed eccentrico dalle influenze mediterranee, in cui fuoriesce la vera natura del cantautore genovese
Ricordo ancora i brividi della prima volta che ascoltai Crêuza de mä, un album così nemmeno lontanamente paragonabile a qualsiasi sound degli anni Ottanta, con quei testi scritti e cantati in una lingua ostica persino ai genovesi, quei suoni dolci provenienti dalla chitarra arpeggiante di De Andrè e dalla sua voce roca. Eppure non capii niente di quelle parole, ma mi arrivò quel senso rivoluzionario deandriano, quella voglia di sperimentare e stupire, quell’appagamento artistico e stilistico mai più provato. Credo che, insieme a Storia di un impiegato, sia senza alcun dubbio il suo miglior progetto discografico, di sicuro il più suggestivo, per influenza e risonanza avuta a distanza nel tempo. Tanto è vero che in molti sostengono che, grazie a questo disco, abbia fondato un genere nuovo: la world music, ispirando tantissimi artisti, tra cui Peter Gabriel, che cinque anni più tardi farà del suo Passion un caposaldo del genere.
«Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popolo è l’autenticità. Ho fatto questo disco per riconoscere questa nostra etnia in un universo più vasto, quello del Mar Mediterraneo»
Nel portare a termine la loro ricognizione delle musiche del “Mar Mediterraneo”, De André e Mauro Pagani in Crêuza de mä non intendevano dimostrare una superiorità culturale di una regione, ma bensì l’esatto opposto. Grazie ad un percorso di ricerca post-moderno, affermavano che non esiste alcuna superiorità identitaria, che la presunta “tradizione”, così come la conosciamo noi, può avere un senso solo nel momento in cui questa viene contaminata, messa in discussione e pronta ad accogliere nuovi costumi. Bizzarro vero? Nel 1984 De André e Pagini era avanti di oltre trent’anni, era proiettato già ai giorni nostri.
In Crêuza de mä Faber afferma le sue radici, ricco di contrasti e culture che sa di mare, di viaggio, di sensualità, di sofferenza.
Un disco per la propria gente definito dallo stesso autore “l’Odissea del Mediterraneo”. Infatti è interamente cantato in genovese, un dialetto influenzato dai vari patrimoni mediterranei, pieno di voci greche, arabe, spagnole o francesi e per questo più coerente di altri con le atmosfere dell’album.
Genova è l’essenza di Crêuza de mä: la crêuza è una tipica stradina ligure, spesso delimitata da mura, che dalle colline porta in piccoli borghi. La crêuza di mare rimanda ad una figura iconografica poetica, quella del mare in tempesta che assume striature simili a strade. Nella titletrack De André affida alla sua penna il racconto del ritorno notturno dal mare di alcuni marinai, ormai estranei a quella terra. Suggestivo il finale in musica in cui vengono accostati degli schiamazzi del mercato della città, che aprono poi Jamín-a, la seconda traccia, canzone passionale dedicata ad una giovane donna algerina, intesa come “ricompensa” che qualsiasi navigatore sogna di incontrare durante il suo viaggio.
In Sidun si cambia scenario. Via Genova e benvenuti a Sidone – Sidun in dialetto genovese -, città del Libano teatro della rovinosa guerra israelo-palestinese. Qui Faber usa la lingua del Seicento (il genovese è una lingua seicentesca), ma sta raccontando un evento contemporaneo, ovvero la strage del 1982 perpetrata nella città libanese dalle truppe di Ariel Sharon, la cui voce si ascolta all’inizio del brano sovrapposta con quella di Ronald Reagan che esalta “il crescente ruolo dell’Italia sul palcoscenico internazionale”. Attraverso il canto, assistiamo alla disperazione di un padre che è testimone della morte del figlio, travolto da un carro armato. Un brano straziante, il più intenso e profondo dell’interno album.
Con Sinàn Capudàn Pascià torniamo a Genova, ma nell’Età antica, in cui viene raccontata la vera storia, o leggendaria, di Scipione Cicala, un nocchiero genovese del Cinquecento catturato dai turchi durante uno scontro navale. Questi, dopo aver salvato la vita del Sultano e dopo aver ripudiato la propria fede, riesce a diventare Pascià. In ‘Â pittima rimaniamo nell’antica Genova, in cui si narra la storia diun emarginato, di un esattore di debiti, un usuraio pagato dai creditori per riscuotere e ricordare ai debitori che è tempo di pagare e non si fugge alla pittima e a chi gli sta dietro.
In  duménega viene raccontata con profonda ironia la passeggiata domenicale concessa alle prostitute genovesi che durante la settimana sono relegate nei loro ghetti, ovvero nei loro quartieri. Così, tra le strade di una città in festa, composta da duna folla bigotta divertita, si mischiano delle povere sventurate. D’ä mê riva chiude l’album riprendendo il discorso iniziato all’inizio con Crêuza de mä, in cui racconta il viaggio in mare, il suo strazio, la sua fatica. In questa poesia drammatica – perché di tale si tratta – un marinaio, pronto per un nuovo viaggio, è costretto a salutare la propria amata rimasta sulla riva e la propria Genova.
Crêuza de mä è uno degli album più ambiziosi mai realizzati. E’ esaltante, sarcastico, doloroso, maestoso, corale, definitivo, globale, fotografico, sapientemente d’avanguardia. Al di sopra e al di là dei testi, c’è la musica, composta da un’attraente miscela di strumenti all’avanguardia e canti delicatamente mistici e suggestivi, in stile mediterraneo.
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