“Mica Van Gogh”, o forse proprio lui? Chiediamolo a Caparezza

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Van Gogh è da sempre definito un artista pazzo, e in questa pazzia ha sempre trovato il fulcro la sua genialità. Caparezza ne ha scritto un evergreen sul pittore olandese, assumendolo come metro di confronto tra una pazzia colta e prolifica e una apparente normalità odierna di una società adepta al piattume culturale e alla frivolezza.

Avete presente la funzione (spesso infame) “Accadde Oggi” di Facebook? Questo pezzo inizia da li. Bene dicevo, questa app mi ricorda – benevolmente o forse no – che due anni fa, oggi, ero ad Amsterdam (per la terza ed ultima-ancora-per-poco volta), al Museo del mio pittore del cuore, Van Gogh, in un freddo autunno dai colori mai visti in Italia.

Sempre la tecnologia stamattina fa da sfondo a questo articolo, e così da Spotify in modalità “Daily Mix” parte “Mica Van Gogh” del genio indiscusso di Caparezza. Adesso potrei partire nell’ammorbarvi su come queste applicazioni riescano quasi a leggerci nei pensieri, di come – grazie alle intelligenze artificiali e alle privacy che dobbiamo per forza spuntare per usufruire di esse – abbiano costretto consapevolmente ognuno di noi a vivere in un Grande Fratello a cielo aperto, o di come “gratuito” sia così diverso da “gratis”. Potrei, ma non lo farò.

Ma queste coincidenze virtuali hanno aperto un varco temporale all’interno della mia mente, così da sentire la necessità di creare un approfondimento tra il celebre pittore olandese e i testi a lui ispirati.

Andiamo per ordine. Chi era Van Gogh? Autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine e i tanti appunti destinati probabilmente all’imitazione di disegni artistici di provenienza giapponese. Jeanne Calment, una francese di Arles che lo incontrò nel suo negozio, lo descrisse come un tipo “sporco, mal vestito e sgradevole, per niente cortese e malato. Lo chiamavano ‘pazzo”. Ed è su questo dubbio tratto del suo carattere che Caparezza sembra fare leva. L’artista di Molfetta, irriverente, sempre in eterno conflitto con la società che lo circonda, che non ha mai timore reverenziale verso nessuna classe dirigente, gioca con le differenze fra un Van Gogh pazzo e un uomo dei suoi tempi sano.

“Prima di dare del pazzo a Van Gogh sappi che lui è terrazzo tu ground floor.
Prima di dire che era fuori di senno, fammi un disegno con fogli di carta e crayon.
Van Gogh, mica quel tizio là, ma uno che alla tua età libri di Emile Zola; Shakespeare nelle corde, Dickens nelle corde.
Tu, leggi manuali di DVD Recorder.
Lui, trecento lettere, letteratura fine; tu, centosessanta caratteri, due faccine, fine!”

Ritornando con la mente al mio viaggio, la prima volta che sono entrata in quel museo ero “accompagnata”. Architetto lui, con una buona preparazione di storia dell’arte alle spalle, notò subito quanto fossi rimasta affascinata da un quadro apparentemente impopolare: “I mangiatori di patate”; questo bastò per farmi spiegare ciò che negli anni successivi avrebbe influenzato molto il mio modo di percepire le cose.

Caparezza
I mangiatori di patate

Prima di diventare pittore van Gogh preferì seguire le orme paterne e abbracciare il mestiere di pastore. Quando finalmente Vincent decise di votarsi all’Arte il suo primo desiderio fu quello di dare dignità artistica all’austerità della vita e del lavoro dei contadini. La solidarietà con la classe lavoratrice indusse van Gogh a visitare le povere casupole del villaggio di Nuenen e a ritrarne i vari agricoltori. Un pensiero anche politico quello del pittore fiammingo, «Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole». Insomma senza i ghirigori fatti per vendere, senza abbellimenti, la realtà andava dipinta in tutto il suo essere. In che modo mi sono lasciata influenzare? Aprendo lo sguardo più sulla semplicità, riscoprendo la bellezza nelle azioni scontate ma mai banali, nei riti quotidiani, ma mai meccanici. Nell’autenticità delle persone comuni.

“Lui a piedi per i campi, lo stimola, Tu, rinchiuso con i crampi sul Tapis Roulant”, reppa in sottofondo Caparezza, per poi riprendere dopo qualche barra con “Lui paesane, modelle, prostitute, tu passi le notti nel letto con il computer”

quasi a voler sfidare gli odierni saccenti, i leoni da tastiera che emettono sentenze senza sporcarsi mai le mani.
Ma il mio viaggio con il naso all’insù in quel museo proseguì fino al raggiungimento di uno dei motivi più banali per cui si pagano i soldi del biglietto: “I Girasoli”.

Caparezza
I Girasoli

Come sicuramente molti voi, neanche io sapevo che il famoso quadro contenente un vaso con quattordici girasoli non fosse l’unica, la più celebre ma non l’unica. Vincent trasferitosi ad Arles, trovò interessante invitare l’amico Gauguin e da inizio estate fino al suo arrivo in ottobre si esercitò nella creazione di questo stesso quadro – come scrive in una lettera al fratello Theo, per impressionare l’amico/collega – creando circa una dozzina di cloni, fino a dicembre. L’arrivo dell’amico non andò come sperato, Van Gogh viveva un periodo fitto di ingegno artistico, e il suo estro sfociava spesso in episodi di mania, così Gauguin decise di andare via, ma prima ritrasse il pittore mentre dipingeva proprio questo quadro. Questo fece imbestialire a tal punto il fiammingo che con una lama provò ad uccidere il collega finendo per tagliarsi un lobo del suo stesso orecchio.

“Lui esaltato per aver incontrato Gauguin, tu esaltato per aver pippato cocaine; lui assenzio e poesia, tu senza poesia.
Lui ha fede, tu ti senti il messia.
Van Gogh, una lama e si taglia l’orecchio. Io ti sento parlare, sto per fare lo stesso.
Ho il rasoio tra le dita ma non ti ammazzo; Avrò pietà di te perché tu sei pazzo, mica Van Gogh!”

Il brano intanto è finito e mi viene in mente una citazione di un altro grande artistica, Lucio Dalla, quando in “Disperato Erotico Stomp” recita “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta è essere normale”. Siamo troppo abituati agli artisti in apice compositivo solo sotto effetto di droghe. Siamo legati all’immagine del rocker cocaina e superalcolico, in apice espressivo. E se il vero estro non fosse nel “viaggio” ma nella realtà, come ci insegnano Caparezza e – prima di lui – Van Gogh, mentre dipinge una famiglia a cena, o i contadini nel campo?

(Articolo originariamente apparso a firma del sottoscritto su Inside Music Italia)

Fabiana Criscuolo
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