1993 e 1996: gli MTV Unplugged dei Nirvana e degli Alice in Chains

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Nella storia della musica sono stati molti gli eventi che hanno reso immortale artisti e canzoni: Jimi Hendrix che brucia la sua Strato durante il Festival di Monterey del 1967, i Velvet Underground che sconvolgono il panorama musicale descrivendo quel substrato urbano tipico del nuovo mondo.
Durante gli anni ’90, nell’epopea della scena Grunge, Mtv realizza una serie destinata ad essere ricordata anche dalle generazioni future. E non tanto per novità stilistiche, nuovi suoni e entusiasmanti virtuosismi; l’Unplugged, una successione di live acustici delle principali band e cantanti dell’epoca, era essenzialmente una “visione eterea” del concerto.

L’aura dell’artista, limitata nella sua fragilità, si distoglieva completamente dal suo ruolo nella società: in un’estasi spirituale, chi cantava non era il protagonista di un palco, ma la Voce di una generazione, quella definita in maniera brutale con la lettera X, ma che nel linguaggio artistico-filosofico viene definita come punk-nichilista.  

Dall’MTV Unplugged sono passati numerosi artisti e grandi gruppi: anche il blues, uno dei generi “snobbati” durante questo periodo storico, venne riportato in auge dal live acoustic di Stevie Ray Vaughan nel 1990 e da quello di Eric Clapton nel 1992.

Tuttavia, considerato proprio questo momento come il climax dell’epoca grunge, la scena dell’Unplugged si è fondamentalmente focalizzata sui due grandi gruppi del periodo. I Nirvana e gli Alice in Chains, e soprattutto i rispettivi frontman, Kurt Cobain e Layne Staley, hanno esaltato con questo concerto acustico i valori del movimento di Seattle.

I Nirvana e l’MTV Unplugged in New York

Partiamo con la band di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl. All’apice del loro successo, il gruppo di Aberdeen rappresentava il grunge: gli strumenti demoliti durante i vari concerti e l’animo autodistruttivo del personaggio Cobain erano lo specchio di un cambiamento radicale all’interno della storia della musica.

L’atteggiamento punk dei Nirvana si contrapponeva fortemente al fortissimo influsso mediatico che li circondava; questo “veleno” risucchiava l’anima di Kurt Cobain, anima caduta poi in un inferno chiamato eroina.

L’MTV Unplugged del 1993 è l’ultimo grande lascito della band americana: una pietra miliare della musica per interpretazione e stile. La scaletta del live non comprendeva i più grandi successi commerciali dei loro album, se non per Come as You Are e All Apologies.

Kurt Cobain
I Nirvana durante l’MTV Unplugged del 1993.

Il live acustico dei Nirvana voleva andare a descrivere, attraverso varie canzoni, le personalità dei tre artisti; con alcune cover dei Meat Puppets (Plateau, Oh Me, Lake of Fire), di David Bowie (The Man Who Sold The World) e del bluesman Leadbelly (Where Did You Sleep Last Night), il gruppo di Aberdeen ha voluto portare davanti al pubblico la loro più pura passione.

Tolta Something in the Way, una delle canzoni più personali e profonde per Cobain, il vero punto nevralgico del live è proprio nelle cover fatte. Con il suo cardigan e la sua Martin modificata per l’occasione, Kurt Cobain è entrato nell’immaginario collettivo grazie al suo arrangiamento della canzone di Bowie e del testo popolare americano reso famoso da Leadbelly.

La prima canzone è una dei diamanti del Duca Bianco, un’opera di rock alternativo riportata in vetta nell’immaginario collettivo proprio grazie all’interpretazione dei Nirvana. In un’atmosfera eterea, distorta in un chiaro scuro tipico dell’epoca grunge, il cantante dei Nirvana rende sua la canzone di Bowie.

Non è una voce distorta, non cerca virtuosismi e acuti penetranti, Cobain punta su un’immedesimazione: il testo della canzone diventa la narrazione di se stesso, che prosegue il suo tram tram quotidiano con la stessa voce volutamente annoiata, ma che in realtà non lo è.

La vita consumata dall’eroina e dai continui malanni fisici lo stanno indebolendo, ma Kurt Cobain continua a rendere sue le canzoni che canta, come il Grande Gatsby che non perdeva mai la fede nell’amore e nell’american dream.

“I searched for form and land / for years and years i roamed / I gazed a gazely stare / at all the millions here / we must have died alone / a long, long time ago”.

La canzone di Leadbelly chiude invece il live. L’Unplugged dei Nirvana conclude il suo cerchio con una scelta unanime: l’interpretazione di un grandissimo testo blues, chiamato Where Did You Sleep Last Night.

Questa canzone, apostrofata prima da Cobain, poi da tutto il gruppo, “la nostra canzone preferita”, termina il live acoustic con una potenza disarmante dettata dalla potenza del testo e dalla voce graffiata e sofferta di Cobain.

I brividi degli spettatori al momento dell’ascolto del crescendo della canzone diventano i veri protagonisti dell’Unplugged: come la voce di Cobain, anche la pelle delle persone diventa carta vetrata, pronta a levigare un testo di antiche origini, plasmarlo e renderlo personale anche per i protagonisti degli anni ’90.

Il cuore di tenebra narrato da Conrad si trasforma in musica: l’oscurità delle parole, unite alla rabbia incontrollata di Cobain, fanno entrare l’ascoltatore nel vortice del grunge, un buco nero che ruota con la voce del cantante, con i giri di basso di Novoselic e con il pathos in crescendo dettato dalla batteria di Grohl.

My girl, my girl / where will you go / I’m going where the cold wind blows / in the pines, in the pines / where the sun don’t ever shine / I would shiver the whole night trough.

L’MTV Unplugged degli Alice in Chains

Dopo la morte di Cobain, l’essenza del grunge pervade ulteriormente le personalità degli altri grandi gruppi. In special modo, ad essere travolto dall’ombra dei media è Layne Staley, frontman degli Alice in Chains.

Il cantante del gruppo grunge più heavy metal di tutti è, forse, il personaggio più fragile del panorama musicale dell’epoca (e non solo): i suoi problemi famigliari hanno lasciato una profonda cicatrice nel suo animo, rendendolo ancora più vulnerabile, soprattutto dopo la morte del simbolo Cobain.

Tuttavia, quello che molti dimenticano, è che Layne Staley era un grande, grandissimo cantante, forse il migliore del periodo per tecnica e potenza. Forte anche della presenza di un gruppo notevole, con Jerry Cantrell alla chitarra, Sean Kinney alla batteria e Mike Inez al basso, Staley è sempre rimasto all’interno dell’ombra del frontman dei Nirvana.

Con l’Unplugged del 1996, gli Alice in Chains decidono di mettere in pratica quello che fece la band di Aberdeen nel 1993. Il live acoustic degli AiC non porta però con sé cover e rifacimenti di altri autori, ma spinge l’acceleratore sulle canzoni della band di Seattle.

Escluse le canzoni del primo album, Facelift, gli Alice in Chains decidono di puntare sulle canzoni che meglio si prestano ad una trasposizione acustica; Nutshell, Down in a Hole, Sludge factory e Would? sono solo alcune delle tracce presenti nella scaletta dell’Unplugged di Layne Staley & Co, pronto come non mai ad entrare nella storia della musica.

La cosa ancora più sconvolgente è la situazione nella quale si trovava il frontman in quel momento: Staley era nel pieno della sua dipendenza da eroina, e anche il meno puritano degli spettatori poteva vedere con occhi lucidi la sua situazione.

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Layne Staley durante l’MTV Unplugged del 1996.

Il veleno che scorreva nelle sue vene lo aveva reso debole, magro, spossato: la sua naturale cattiveria era stata come risucchiata via da quella maledetta droga che ha portato via tantissimi artisti nel corso della storia, Jimi Hendrix e John Belushi su tutti.

Ma con l’Unplugged del 1996 Staley decide lo stesso di salire sul palco, di iniziare a cantare le canzoni che lo hanno reso celebre tra gli ascoltatori e la critica. E io non potrò mai ringraziarlo abbastanza per aver accettato questo compito, di essersi seduto su quello sgabello, con quei capelli rosa e la pelle bianca come coperta da neve.

Non mancarono gli errori, certo, ma la performance degli Alice in Chains merita di diritto l’esaltazione del vostro carissimo (e anche la vostra spero). Aprendo il live con Nutshell, Layne Staley va in estasi: entra nel suo mondo fatto di parole e suoni e inizia il suo personale lascito alla musica.

And yet I fight / this battle all alone / no one to cry to / no place to call home.

Le varie canzoni, impregnate come se ruotassero attorno all’idea del Don Chisciotte di De Cervantes “Sono nato per vivere morendo”, si sviluppano in un ambiente vampiresco, affascinante e pericoloso allo stesso tempo. Con Down in a Hole, la performance degli Alice in Chains compie il definitivo salto di qualità.

La difficoltà della canzone, piena di armonizzazioni tipiche del gruppo di Seattle, leva il confronto quando Staley, insieme al buon Jerry Cantrell, iniziano a cantare. In un leitmotiv alla Simon & Garfunkel, i due artisti guidano l’ascoltatore ad un nuovo tipo di musica: non c’è più l’urlo disperato di Cobain, è l’armonia degli Alice in Chains a segnare il percorso da seguire.

Bury me softly in this womb / oh I want to be inside of you / I give this part of me for you / oh I want to be inside of you / san drains down and here / I sit holding rare flowers.

L’aria respirata durante gli MTV Unplugged è quindi l’aria degli stessi anni ’90: attorno all’idea di questi live acustici si sviluppava questa scoperta della “normalità”. Non c’erano cantanti e musicisti pronti ad esaltare le loro doti con assoli di quattro minuti o vocalizzi di alto impiego tecnico.

Kurt Cobain e Layne Staley, con le loro rispettive band, volevano solamente portare a noi pubblico quella che era la loro idea di musica, il suo metodo di fruizione e la loro rabbia interna. Non cercavano di ergersi sopra di noi, ma l’esatto opposto: volevano continuare a sentirsi parte di quella generazione, volevano rivivere per due ore di live una completa immersione con il pubblico.

Non volevano dimenticare (e soprattutto non volevano far dimenticare) che loro, prima di essere i leader delle rispettive band, erano semplicemente dei ragazzi incompresi, troppo utilizzati come strumenti per poter essere trattati ancora come esseri umani.

Luca Bernardini
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