In Utero, Nirvana: il testamento di Kurt Cobain

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In Utero, Nirvana, ultimo lavoro di Kurt Cobain: il lavoro della celebre band di Seattle è stata una scommessa. E’ all’altezza del capolavoro, Nevermind? Assolutamente sì, anche tanti anni dopo.

Inizialmente l’album presentava un titolo diverso, I Hate Myself and I Want to Die – chissà, forse qualcosa già ribolliva nella mente di Kurt Cobain – ma sotto consiglio del suo produttore diventò In Utero. Il titolo poteva generare problemi soprattutto tra i fan più accaniti e influenzarli negativamente. In seguito fu preso in considerazione il nome Verse Chorus Verse, fino ad arrivare a In Utero, scelto da Cobain dopo esser stato ispirato da una poesia della compagna Courtney Love.

Ciao Simon…Volevo chiederti se t’interesserebbe disegnare qualcosa per la copertina del prossimo disco dei Nirvana, che sarà pronto per le vendite una volta che ci saremo occupati della grafica. Credo che tu sia molto bravo a disegnare e se tu prendessi in considerazione la mia richiesta, per me vorrebbe dire molto. Il titolo dell’album è piuttosto negativo ma un po’ divertente. Si chiama: I Hate Myself and I Want to Die.

Per la registrazione del nuovo lavoro i Nirvana scelsero il produttore Steve Albini, il quale, secondo Kurt, sarebbe stato l’unico in grado di concepire un disco catturando l’atmosfera grazie al posizionamento di microfoni in una stanza, tralasciando la classica registrazione in studio.

in utero nirvana

Rilasciare la versione di Albini: masterizzato con sequenza diversa sotto il titolo di I Hate and I want to Die. In 33 giri, cassetta e 8-track. Albini, crediti di Albini come Producer e mixologo. Con l’adesivo che dice: ‘ Il nuovo disco in studio dei NIRVANA per il ’93. Contiene Heart Shaped Box, Rape Me e 12 altre canzoni’ Nei negozi locali e ovunque si trovino i 33 giri. Non si inviano promo!

Un album impersonale – così il frontman aveva dichiarato in un’intervista. Ma sembra essere del tutto un controsenso: la nascita di sua figlia, il celebre singolo – forse la prova di aver superato Nevermind – Heart Shaped Box dicevano il contrario.

“La teoria di Camille della vagina/fiore che sanguina e si diffonde sul tessuto che Leonardo avrebbe usato per migliorare il suo parapendio ma è morto prima di cambiare il corso della storia.”

Ad aprire l’album è Serve the Servants sempre dal suono grunge inconfondibile. Esplicita la crescita dell’artista che aveva affermato di esser andato oltre il successo ottenuto; la figura della rock star non voleva indossarla, aveva reso il suo mondo noioso e disgustoso.

“Sono ugualmente infastidito e colpito dal vecchio e familiare rituale di presentarsi in una stanza zeppa di persone sperando di sentire vibrazioni che mi scende lungo la schiena quando ascolto una canzone che conosco, o assistito a un’enigmatica performace di un gruppo di persone che decide di appendersi al collo delle tavole di legno… Non ho mai preteso di essere un punk rocker. Né sono mai stato ispirato, quanto i Led Zeppelin o gli Aerosmith.”

Continua il volersi distaccare dal successo del precedente album e dalle altre rock band oramai intrappolate nella legge del mainstream con la lenta Dumd.

“Io ho imparato una lezione. Non ho nessun diritto di esprimere la mia opinione finché non so tutte le risposte.”

A chiudere il tutto All Apologies, a distanza di anni forse questa canzone riceve un significato in più.

“Nulla ha o sarà. Nulla potrebbe o dovrebbe. Gli alternateen che ignorano la bandiera della Budweiser sponsor appeso sulla parete dietro a gruppi esistenti da oltre 10 anni. Una scusa per farsi scopare. Jimmy Carter è stato ed è un uomo estremamente amorevole e dotato di sensibilità. Ma quando ero bambino ricordo soltanto che gli piacevano le noccioline e che aveva le labbra caronose.”

Tutte le scuse. Forse per non esser stato in grado di reggere il peso di esser diventato l’icona del rock degli anni Novanta, forse per l’esser preso sul serio, la pressione di dover dare qualcosa al mondo della musica. Quello che sembrava ripetersi nella mente di Cobain è “non ce la faccio, c’è qualcosa più grande di me.” E il cercare di non annaspare e l’aggrapparsi a qualcosa – come a quest’album – risulta vitale; un nascondersi nell’utero, nutrirsi, esser vivo ma estraniarsi da tutto quello che c’è fuori. Una non vita e una non morte allo stesso tempo.

“Questo disco è dedicato ai parenti morti. Sono al sicuro, al calduccio e pieni di sorrisi felici”

Beatrice Sacco
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