C’è, radicata, una certa convinzione che chi si appassiona di scienza – definizione che vuol dire tutto e nulla – non possa, automaticamente, avere anche un talento e un sincero interesse per l’arte. Eppure, gli esempi per il contrario sono infiniti: tanti autori di fantascienza erano scienziati (Asimov era un fisico, Crichton un medico) e tanti musicisti sono anche scienziati – uno fra tutti, Bryan May, arcifamoso chitarrista dei Queen, con un PhD in astrofisica.
Ed è di astrofisica che parliamo oggi, con l’esordio di Bob Rocket, giovane musicista italiano e, possiamo anticiparlo, di ottime speranze, che, il 23 aprile, uscirà col suo esordio – Encelado, via Sounzone.
Partiamo da una piccolissima premessa. Per la comprensione di Encelado di Bob Rocket, è necessario avere alcune informazioni riguardo chi lo ha preceduto. C’è un concetto, antico come l’umanesimo, chiamato musica universalis: una risonanza armoniosa fra le “sfere” – gli astri, i pianeti – presenti nel cielo della Terra e che, per loro peculiare natura, non potevano che produrre un suono, qualora tradotto per essere udibile da orecchie umane, perfetto. Abbiamo dunque un certo Pitagora che si interessò del movimento degli astri, e cerò di concretizzare quell’humming che pensava essi emettessero – Aristotele lo sconfessò, vile e poco sognatore rude peripatetico. Fu poi Keplero, nel 1500, a dare nuova linfa al concetto di musica dell’universo: l’Harmonices Mundi, un trattato basato sulle sue scoperte cosmologiche, ma che, come era d’uso all’epoca, è mescolato con metafisica, teosofia, religione sincretica.
Non che, da Keplero in poi, il concetto di musica universale si possa dire sia scomparso: si conta su molti esempi anche ora. La Sinfonia dei Planeti, di Gustav Holst. Music of the Spheres, di Mike Oldfield – sì, quello famoso per Moonlight Shadow. Vari lavori di Bjork. Vari lavori dei Coldplay. E, curiosamente, la colonna sonora – intera! – di Destiny, videogioco del 2014, che ebbe un successo mondiale. Fu, però, nel 2017 che la melodia teoricamente prodotta dalla risonanza di pianeti attorno ad una stella venne tradotta in musica: e non un sistema planetario qualsiasi, ma quello di Trappist 1, una stella lontana anni luce dalla nostra, i cui pianeti risuonano – ossia, hanno moti di rotazione attorno ad essa sincronizzati in precise proporzioni – in frequenze che è possibile tradurre come udibili da noi. Ed è esattamente ciò che ha fatto, ma su altri astri e con la collaborazione dell’astrofisico Amedeo Balbi, Bob Rocket, con Encelado.
Le tracce di Encelado, da Leonida a Giant Xi Hya, scorrono fluide, oniriche. Ciascuna è dedicata ad una risonanza, un’onda radio, emessa da un certo astro: Leonida, dallo sciame delle leonidi, che la Terra incontra – stelle cadenti. Enceladus, title track, è una piccola luna di Saturno dotata di una tenue atmosfera – un suono quasi tecno, che risponde e logiche matematiche precise, sì umane nella realizzazione, ma inorganiche nell’origine, e, per questo, stranianti ed affascinanti. Stesso dicasi per la evocativa suite Saturn Balbi, che è debitrice di alcune ispirazioni bjorkesche, nella natura delicata e flautistica – quasi femminea – della composizione, che è, invece, basata su una tempesta che ha sconvolto il gigante gassoso. La violenza dell’esplosione di una supernova, una stella supermassiccia che termina in tragedia la propria breve esistenza (“Certe gioie violente hanno fini violente”, diceva Shakespeare), è ben rappresentata in Crab Supernova: oscura, di note nere, ciò che rimane di quella stella è una pulsar, un piccolo astro celeste composto di neutroni, che si comporta come un magnete. Un magnete le cui emissioni radio, spesso, scambiamo per segni di vita extraterrestre.
La coppia Kepler/Kepler 2 è la placida descrizione del movimento di alcuni esopianeti, rocce distantissime da noi e chissà se vedremo mai, noi umani, dal basso del nostro braccio di Orione – paesaggi inimmaginabili, diamanti che costellano una terra butterata di vulcani, soli arancioni che illuminano cieli pallidi, foglie viola di piante deformi. La nostra, invece, di Stella, il sole, di classe G e intensamente gialla, è un astro che è sottoposto a continui sconvolgimenti: terremoti, brillamenti, in un ciclo che dura circa tredici anni. E che Bob Rocket ha tradotto in Sun Sonification, vibrante di distorsioni.
Ci tuffiamo negli abissi più profondi e lontani dello spazio con Giant Xi Hya, una stella enorme presente nella costellazione dell’Hydra – e vibra in modo meno energetico rispetto alla nostra. Suoni ed onde più scure attraversano e compongono la traccia, che lascia, sul finire, un senso di tremenda incompiutezza: l’orrore del protagonista di 2001 Odissea nello Spazio all’interno del monolite, Gagarin da solo in orbita attorno alla Terra, piccola e blu, da lassù.
Encelado di Bob Rocket scorre energetico, basato di materia adronica, non oscura, ed è un unicum emozionante nella musica italiana.
Una composizione intelligente sia dal punto di vista culturale, visto l’approccio sincretico alla musica, che effettivamente tecnico: i synth sono ingegnerizzati e mixati in modo ottimale, evocativo ed efficace. La perfezione espressiva ed estetica di Encelado di Bob Rocket mi ha ricordato gli orbitali atomici: semplici, simmetriche strutture, rappresentazione visiva di funzioni matematiche. Come la sua musica è sonorizzazione di fenomeni distantissimi ed incommensurabili.
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