Lo scorso 24 marzo è uscito per Peaceville Records il nuovo album del black-metaller norvegese Mork (all’anagrafe Thomas Eriksen) dal titolo Dypet, a esattamente due anni di distanza dal precedente e acclamato Katedralen.
In un’industria del black metal che è oggi più viva che mai, e che sforna ogni anno decine e decine di album provenienti dalle regioni più remote del globo, Mork è uno di quegli artisti che hanno saputo coniugare un approccio più tradizionale, ancora molto importante in alcuni circoli di ascoltatori, con una sensibilità più moderna. La sua musica è sempre rimasta nel solco del black metal “classico”, che egli ha saputo però interpretare in modo diverso da molti suoi zelanti contemporanei: nessun wall of sound, nessun uso ossessivo del blast beat o del tremolo picking, ma un tentativo di assimilare più linguaggi, riconducendoli nell’alveo del nero metallo; un’attenzione sì alle “atmosfere” che fanno da sfondo ai brani ma mantenendo la loro funzione, per l’appunto, di “sfondo”, senza l’enfasi eccessiva che spesso troviamo nel genere. Un approccio confortato da capacità creative sicuramente al di sopra della media.
In questo percorso, la pubblicazione di Katedralen (2021) aveva rappresentato un cambio di passo, mostrando un songwriting più elaborato e delle soluzioni più varie, pur restando all’interno di un sound centrato e ben identificabile. Rispetto al suo posizionamento tra tradizione e innovazione, Mork rimaneva più vicino alla alla prima – e ben contento di esserlo – ma si segnalava per un lavoro strumentale più complesso, relativamente atipico per complessi che suonano black metal con un piglio old school.
Da questo punto di vista Dypet è un ritorno al pre-Katedralen. C’è complessivamente una maggiore attenzione al soundscape e gli elementi strumentali utilizzati per costruire melodie e accompagnamenti sono più semplici rispetto al suo predecessore. In brani come “Indre Demoner”, a cui è affidata l’apertura dell’album, l’oscurità e il male prendono il loro tempo, la loro propagazione è lenta benché inesorabile. Non parliamo di una differenza radicale, ma di accento: sono brani meno ruvidi, più melodici e atmosferici, anche se il black metal “melodico” e “atmosferico” (quest’ultimo in particolare molto in voga) restano un’altra cosa. Alcuni passaggi – ad esempio, le ritmiche di “Forført Av Kulden” – hanno un che di meditativo, mentre le parti non cantate del brano delineano uno stato emotivo assimilabile alla nostalgia o alla malinconia. Brani come “Svik” e “Bortgang” hanno un tono che potrebbe definirsi magico, se non incantato, ma di un incanto strano, come se l’oscurità fosse lacerata da un sprazzo di luce, per poi richiudersi, ed esserne nuovamente trafitta, e così via, senza una fine.
Una parola a parte merita “Høye Murer”, il vero capolavoro di Dypet. Una conferma, anzitutto, della costante ricerca emotiva che caratterizza il lavoro, un contrapporsi di stati animo ora più rabbiosi, ora più solenni. Un ritmo più cadenzato, che ha l’effetto di sottolineare meglio il contrasto tra la melodia e la voce. Uno dei brani più belli che Mork ci ha regalato in esattamente dieci anni di album pubblicati.
Limiti linguistici ci impediscono di offrire un’analisi testuale, ma se dovessimo giudicare unicamente dai titoli dei brani di dypet, verrebbe da pensare che Eriksen, che da queste colonne ha presentato il proprio approccio alla musica in termini di ricerca emotiva, giochi sull’ambiguità tra interno ed esterno, tra gli ambienti del mondo e quelli della coscienza. La seduzione del freddo (kulden) è una semplice affermazione climatica, o una presa di posizione morale, che rimanda all’assenza di calore inteso come afflato verso l’altro? Le alte mura (høye murer) sono un ostacolo soltanto fisico, o alludono a un percorso di sviluppo dell’individuo? O sono forse una proiezione esterna dei propri demoni interiori (indre demoner)?
Da un punto di vista personale, il mio approccio con quest’album è stato del tutto diverso dal precedente. Se quello mi aveva folgorato al primo ascolto, inducendomi a urlare a tutti coloro che avevano orecchie per sentirmi che razza di capolavoro fosse, la prima sensazione che mi ha trasmesso Dypet è stata quella di un album meno brillante. A meno di una settimana dalla sua uscita, il mio punto di vista è cambiato. Non è migliore né peggiore, batte semplicemente un’altra strada, ma non meno brillante. Ascoltarlo, però, comporta dei rischi.
Se, terminato l’ascolto di Dypet, deciderete di dedicarvi a un altro album, c’è il forte rischio che a confronto vi sembrerà poca cosa. Se poi è un album black metal di ultima generazione, più che un rischio, è una certezza.
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