I Five Finger Death Punch tornano, silenziosamente, sulle scene con il loro nuovo album “F8”. Per loro è l’album del riscatto dopo le tante, TROPPE, situazioni che li hanno messi in difficoltà ed anche sull’orlo dello scioglimento. Vedremo dove, con questo album, potranno tornare.
“Ma chissà che fine hanno fatto i Five Finger Death Punch?” oppure “Chissà che fine faranno i Five Finger Death Punch?”. Questa sono le due domande più frequenti nella mia testa sulla band americana. Domande più che lecite visto quel quasi fallimento di un album chiamato “And Justice For None”, seguito poi da gravi momenti per la band e per i singoli momenti dei membri (con tanto di cambio di batterista, con l’entrata di Charlie Engen al posto di Jeremy Spencer), che hanno portato la band sull’orlo dello scioglimento diverse volte. Una band che da molti è stata data per “morta” già dopo l’uscita di “Got Your Six” (che a me piacque molto). Quindi i 5FDP sono chiamati alla riscossa, a tornare, nel loro piccolo, quella band tanto premiata di una volta, che non si trovino difficoltà tra i membri della formazione. Quindi le due principali domande durante l’ascolto di questo album sono se riusciranno a riprendersi il loro posto, o se si potranno definire “morti”.
Uno dei tanti errori dei Five Finger Death Punch è stata quella di farsi influenzare troppo dalla frase “squadra vincente non si cambia”, solo che la squadra sono i riff, finendo per essere molto ripetitivi già dai primi album, ma in quel caso dietro l’essere ripetitivi c’era la giustificazione dell’essere ad inizio carriera.
I Five Finger Death Punch, purtroppo, già da inizio carriera, furono e sono ancora etichettati, come quella band da “palestra”. Riff potenti ed argomenti forti (in maggioranza si parla di “guerra”). Per i primi tempi questa “formula” funzionava, penso a pezzi come “The Way of the Fist”, contenuta nel loro primo album “Iron Fist”, oppure pezzi come “No One Gets Left Behin” contenuta in “War Is the Answer” (l’album dove si tocca di più l’argomento “guerra”). Quei “primi tempi” andarono bene fino ad “American Capitalist”, che è diventato poi il loro disco più famoso. Seguirono altri due album di successo, comunque inferiore ad American Capitalist. Seguirono i due volumi di “The Wrong Side of Heaven and the Righteous Side of Hell”, anche loro ebbero successo, specialmente il primo volume dove troviamo. Da qui i Five Finger diventarono, dopo che famosi, mainstream.
Nei due volumi di “The Wrong Side of Heaven and the Righteous Side of Hell” arrivarono quei Five Finger Death Punch capaci di fare un pezzo con Rob Haldford, ovvero “Lift Me Up”. Album che li hanno portati sui grandi palchi, ad aprire a grandi band, e li ha portati a tanti festival nel mondo. Ma in due anni cambià molto. Perchè ovviamente diventare mainstream e avere MOLTO pubblico richiede un grande lavoro. Ma per “soddisfare” il pubblico e continuare ad avere dei “feedback” da quest’ultimo c’è bisogno di farsi influenzare. Ma spesso questo farsi influenzare ti rovina, e spesso no, addirittura ti può anche migliorare. Nel caso dei 5FDP è stato un decadimento, cominciato, in piccolo, con “Got Your Six” e che è continuato con “And Justice For None”, ed ora vedremo cosa può essere questo “F8”. Se appunto potrà essere una resurrezione oppure a fine della band americana.
E quindi ci troviamo davanti ad un esame per i Five Finger Death Punch. Un ultimo esame…
Ascoltando questo album non dovremo puntare sul sentire qualcosa di nuovo. La cosa migliore da fare è il non arrivare a pensare “ok è roba sentita e risentita”, perchè molto probabilmente a quel punto per voi sarebbe un album ampiamente non sufficiente. Dobbiamo, invece, pensare alla voglia di rinascita della band, alla voglia dei Five Finger Death Punch di voler allontanarsi da quella linea che una volta superata manderebbe la band insieme a tante altre band considerate “finite”. Quindi nel momento in cui partirà “Inside Out”, cerchiamo di farci prendere dalla nostalgia, e capire quanto loro ci tengano, in primis a riprendersi la loro parte, e poi di quanto si vogliano riconfermare nella scena metal. Perchè sicuramente i Five Finger Death Punch non sono quella band che deve ancora dare tanto, è invece è una band che si deve ri confermare.
L’album si apre con due tracce molto significative per quella nostalgia di cui parlavo. Infatti “Inside Out” e “Full Circle” ci riportano ai sound di American Capitalist (ovvero di quando i Five Finger, oltre a diventare mainstream, testarono sound più moderni). Dopo queste due canzoni arriva “Living the Dream” una canzone molto significativa per la band. Infatti la canzone parla principalmente del famoso sogno americano che la band ha inseguito ed esaudito, passando però attraverso tanti problemi. Subito dopo quest’ultima traccia arriviamo subito alla prima ballad, in pieno stile Five Finger Death Punch, ovvero “A Little Bit Off”, che possiamo definire la power ballad dell’album. Con “Bottom of The Top” ritroviamo quei 5FDP pre-American Capitalist, stesso discorso per “Mother May I (Tic Toc)”, ma che si stacca un pò dall’effetto nostalgia facendosi trovare dei Five Finger Death Punch che sperimentano.
Da qui in poi ritroveremo, finalmente, i vecchi Five Finger Death punch, con canzoni come “This Is War” e le altre due ballate, “Darkness Settles In” e “Brighter Side of Grey”. La nostalgia si fonda anche con la passione per la band, che ci fa pensare che forse il loro posto lo hanno ripreso (anche se non completamente). Canzoni come “Scar Tissue” sono canzoni che danno un buono segnale per la rinascita della band, che si dimostra ancora viva.
Quindi questo album si può definire un “album a due facce”. Abbiamo la piena sufficienza sul lato nostalgico, e sicuramente la band si riprenderà il suo posto nella scena metal, e probabilmente la stima di tanti vecchi ascoltatori che li avevano lasciati al loro destino. Ma insieme a tutto questo non abbiamo la sufficienza, e ne siamo molto sotto, sul piano “musicale”. Una band che per tre album (compreso questo F8) non ha avuto più nulla da dire, non ha ma sperimentato ed è troppo legata ai loro personaggi, ovvera quella di rappresentare l’americano duro e puro che ogni tanto si pente della sua vita vissuta.
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