Ihsahn, Ihsahn: recensione

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Ihsahn è il nuovo, omonimo album del cantautore norvegese, uscito il 16 Febbraio del 2024, via Candlelight Records.

Il signor Vegard Sverre Tveitan ha smesso gli abiti da black metaller stereotipici da tempo. Se fossimo in un romanzo di Philip Roth, Vegard sarebbe un vicino di casa salaryman, famiglia e lavoro e mustang da aggiustare in garage nel fine settimana come evasione. Ma l’abito non fa il monaco: ed Ihsahn – questo lo storico nome d’arte di Vegard Sverre Tveitan – ne è il fulgido esempio.

Molto ha esplorato nella sua carriera, sin dai tempi degli Emperor. Molto è stato fatto, molto è cambiato nel mondo del black metal – una grossa parte di tale cambiamento è a lui imputabile, vista la sua prolifica carriera solista. I due EP usciti durante l’anno orribile 2020, Telemark e Pharos, erano già due piccole gemme, ma il nuovo, omonimo LP si spinge un po’ più in là, dal punto di vista compositivo ma soprattutto concettuale. Una menzione d’onore, a mio modestissimo parere, merita la cover di Manhattan Skyline degli A-ha rilasciata nel 2021, in collaborazione col cognato Einar Soldberg dei Leprous: ariosa, pura, giganteggiante.

Il ritmo di Ihsahn è rapido, da  extrasistole: e non solo per le ritmiche scelte, ma per le continue, a tratti estenuanti, scelte stilistiche; gli intermezzi orchestrali, i cambi d’accordo, i passaggi da harsh vocals a voce pulita. Ihsahn è una star, e sa di esserlo. Sceglie di mettere se stesso e il suo caos interiore – maelstrom intricati di note, eliche che si intrecciano negli infiniti frattali delle corna di cervo norvegese a picco su un fiordo – al centro: i suoni sono acuti, metallici, definiti, appuntiti. Eppure, come tracotantemente viene espresso nel lato orchestrale dell’album, il gusto per la sinfonia – per la colonna sonora, sebbene di un horror delirante, sporco, e probabilmente blasfemo – permea l’intero lavoro. E sono proprio gli intermezzi orchestrali che rendono Ihsahn apprezzabile da tutti, che fanno sì che la sua musica funzioni e non sia solo l’ennesimo, distorto, violento lavoro del classico old-school black metal. Ihsahn è evoluto come musicista, ma soprattutto come uomo. Ha ammorbidito la sua rabbia scaldandola con le mani, ha fatto ottimo uso del tempo trascorso; l’ha plasmata in forma diversa, raffinandola, cuocendola e lucidandola. Ed è da tale attitudine che nascono brani come The Distance Between Us e Blood Trails to Love: inquietanti, oscure, misteriche. Che abbracciano quanto espresso dagli Opeth in termini di cura della melodia, e lo ben coniugano con la sporcizia tipica dei lavori di Ihsahn. Un oscuro, sarcastico, inerentemente tragico e perfino nichilistico, romanticismo permea Ihsahn: l’amore è una forza motrice, la cui potenza può essere misurata a seconda del numero di morti a cui essa conduce.

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Curiosamente, però, Ihsahn compie un’altra operazione geniale, dal punto di vista di marketing: ascolta attentamente il prog moderno – le declinazioni djent, la cura per la tastiera ed il spesso difficile equilibrio fra opulenza di wall of sound ed ubriacatura da eccesso di suono – e riesce ad adattarne gli stilemi al black metal vecchio stile. Ciò è già evidente dalla prima traccia vera e propria di Ihsahn – dopo l’orchestrale Cervus Venator -, The Promethean Spark, che esplora, piuttosto cripticamente, la convivenza fra la civiltà tecnologia e i suoi “templi d’acciaio” e la natura, che, resiliente, si ostina a non abbandonare ciò che un tempo le apparteneva. I tremolii di Piligrimage to Oblivion, nonché la doppia cassa, faranno andare in brodo di giuggiolo i metaller più accaniti, salvo poi testimoniarne la scomparsa in un mare di archi impazziti. La splendida e furiosa Twice Born è una piccola summa del nuovo stile di Ihsahn: intermezzi orchestrali, un curioso ed inaspettato interesse per l’arriccio accattivante e melodico ma, soprattutto, un forte gusto per la narrazione, sia tramite la struttura del brano in sé che tramite le liriche – che descrivono la rinascita dopo una malattia mentale, avvalendosi di elaborate metafore. A Taste of Ambrosia è esattamente ciò che dice di essere: un assaggio di bevanda degli dei. Perfino dolce, nonostante le harsh vocals; il reale impegno e perfezione della sua composizione sono più semplici da notare nella versione puramente orchestrale, nonché l’innegabile ispirazione dai lavori di John Williams e Goldsmith. Mescolando, però, a metà brano, nuovamente le carte: con un assolo di chitarra che spariglia e scompiglia, fino ad un finale grandioso operistico. La sorprendente Blood Trails to Love si avvale, poi, delle complesse percussioni di Tobias Ørnes Andersen, che crea ritmiche quasi da found music, tamburi nella notte e rametti spezzati nella foresta: l’angoscia e l’oscurità delle stanze del brano lasciano lo spazio all’enorme apertura del refrain orchestrale in clean vocals e ad un sorprendente intermezzo di tango – qualcuno ha detto Diablo Swing Orchestra? Stesso vale per la successiva Hybris and Blue Devils, che, come Twice Born, è un intelligente manifesto programmatico del nuovo Ihsahn, alternanza fra catchy e violenza pura (che tanto va di moda ora: si guardi l’ultimo lavoro della danese Myrkur, Spine). La splendida A Distance Between Us, punta di diamante dell’album, potrebbe esserne definita la hit, la power ballad – sebbene parli di un amore pericoloso, già morto in boschi ombrosi. Eppure, Ihsahn ha un’altra gemma nel suo grande bracciale da Re Mida: At The Heart of All Things Broken, principalmente in clean vocals, è un’altra grandiosa traccia e, tipicamente, ne è la suite. Un vero e proprio viaggio musicale che inizia dal prog moderno più classico e lucido – pare di ascoltare The Mountain degli Haken – che si sposta, poi, verso lidi maggiormente Ne Obliviscaris e The Ocean; infine, si approda ai Borknagar. La bellezza di At The Heart of All Things Broken sta nel tremendo contrasto della sua candida lucentezza con il resto di Ihsahn, che punta sull’essere polveroso ma costellato di piccole gemme rilucenti. At The Heart of All Things Broken è una traccia puramente operistica strutturata in un classico crescendo: il build up è lento ed interessante, e sottosezioni e strati su strati di chitarre, voci, si aggiungono man mano, a là Townsendiana maniera, sebbene ben precisi movimenti non siano rintracciabili e il risultato finale risulti volutamente caotico e disordinato.

Similmente al collega Devin Townsend, Ihsahn ha creato un nuovo genere: il suo. Ed il suo album della consacrazione, che porta solo il suo nome, verrà ricordato negli anni a venire. La mia personalissima e verbosa considerazione, dopo almeno dieci ascolti di Ihsahn, è che, forse, il suo futuro includerà più clean vocals: il tempo della violenza è agli sgoccioli, e il compositore ne è a conoscenza. Chissà, questo lavoro è forse un intermezzo per testare il terreno, per proporre, poi, in futuro, un’interpretazione meno polverosa, e più lucidamente inquietante degli orrori della vita umana, della paura del buio, dei misteri nascosti antichi fra alberi e palazzi di cemento.

Giulia Della Pelle
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