“Senjutsu”, il nuovo (vecchio) album degli Iron Maiden

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L’attesissimo nuovo lavoro degli Iron Maiden – il diciassettesimo album, dal titolo Senjutsu – ha visto la luce il 3 settembre per Parlophone, dopo il rilascio di due singoli intitolati “The Writing on the Wall” (15 luglio) e “Stratego” (19 agosto).

La band di Steve Harris, Bruce Dickinson e soci si ripresenta al pubblico con un nuovo album a circa sei anni dal precedente The Book of Souls. Almeno a partire da A Matter of Life and Death (2006), e forse anche prima (leggi l’Old but Gold sugli Iron Maiden) , il gruppo si è fatto notare per un evidente cambio di registro, che andava a privilegiare brani più duraturi e costruzioni più articolate, offrendo lavori che potevano agevolmente raggiungere gli 80 minuti con non più di dieci brani. Il pubblico sembrava apprezzare.

Al netto di qualche brano che non segue pedissequamente questo schema, con Senjutsu il trend pare nondimeno confermato. Dire che l’album non si discosta granché dalle ultime uscite è dire poco. Gli Iron Maiden utilizzano con grande padronanza gli stessi (pochi) elementi del loro repertorio, inserendoli all’interno di uno schema ricorrente che la band intende sviluppare su grandi distanze. Ma insieme alla lunghezza, c’è una certa perdita di mordente che è difficile non attribuire agli anni che passano. Gli Iron Maiden sembrano aver frainteso la durata dei brani con l’aver qualcosa da dire. Tuttavia, gratta gratta, al di sotto dei tanti riff, dei cambi di passo, dei momenti più solenni, delle lunghe intro di ciascun brano, è difficile non scorgere una forte ridondanza.

Iron Maiden, Senjutsu

Senjutsu consta di due dischi, di sei e quattro tracce rispettivamente, per un totale di 81 minuti. La title track apre il primo disco con un riff poderoso che dà presto il là a un ritornello più melodico accompagnato da un motivo di chitarra in registro più acuto. Le due parti si ripetono fino a un intermezzo più solenne, grazie alla voce di Dickinson, che non altera l’incedere lento del brano. Quest’ultimo procede indisturbato per oltre otto minuti, ripetitivo e prolisso, e ciò nondimeno è probabilmente uno dei meglio riusciti.

La più breve “Stratego”, già ascoltata come singolo, ha un riff e una linea vocale non particolarmente ispirati, ma assai funzionali per un singolo da utilizzare per il lancio dell’album. Le cose vanno meglio con la successiva “The Writing on the Wall”, diffusa lo scorso luglio con uno splendido video animato di accompagnamento. Vale quanto detto per il resto dell’album ma, forse per merito di Adrian Smith, reduce dal recente album Smith/Kotzen, forse per via delle venature blues-rock che caratterizzano il riff portante, è il brano dell’album che denota maggiore freschezza e passione. 

Con “Lost in a Lost World” inizia, purtroppo, la parte più debole di Senjutsu. Un intro lento, un riff telefonato, una struttura che ricalca innumerevoli altri brani del gruppo, una parte strumentale centrale in cui le chitarre descrivono melodie suonando all’unisono su una scala minore (inducendo la domanda: quante altre melodie simili possono essere spremute dalla stessa scala?). La più breve e indolore “Days of Future Past” fa da ponte per la conclusione del primo disco, affidata a “The Time Machine”, dove si ripete lo stesso canovaccio: un’introduzione soffusa affidata a un arpeggio di chitarra che accompagna la voce di Dickinson, un riff più grintoso, presto annegato in un susseguirsi di déja vu. Non un accordo, non un accento di batteria, non una melodia, non un cambio di passo che non avremmo potuto prevedere.

Sul secondo disco di Senjutsu questi aspetti, nostro malgrado ripetuti fino alla nausea, sono se possibile ancora più marcati. Fa eccezione “Darkest Hour” (si parla naturalmente di Winston Churchill), scritta da Smith e Dickinson, che è in tutto l’album il brano che più si avvicina a una ballata: dai toni ostentatamente drammatici, alla ricerca di un’intensità emotiva che si perde in scelte melodiche e ritmiche che ne uccidono le aspirazioni. I tre brani conclusivi, tutti a firma di Harris, ripetono, con poche variazioni, lo stesso schema: un’introduzione arpeggiata, spesso molto lunga, un riff non originale, una lunga sequenza di parti tra loro meramente giustapposte, ripetizione degli stessi cliché, una chiusura che dovrebbe completare il cerchio strizzando l’occhio all’intro (e dire che i finali erano un tempo uno dei pezzi forti dei Maiden).

Quante volte ancora Nicko McBrain vorrà usare quel ritmo o quegli accenti? Quante altre volte dovremmo aspettarci una variazione sulla stessa melodia da parte dei tre chitarristi? Quante volte ancora il buon Steve Harris riciclerà le medesime sequenze di accordi?

Tutto questo lo sentiamo meno nella penultima traccia, “The Parchment”, in virtù di un riff appena più fresco, ma in modo quasi tragico nelle restanti “Death of the Celts” e la conclusiva “Hell on Earth”. Parliamo di tre brani il più breve dei quali ha una durata di dieci minuti.

Gli Iron Maiden hanno da tempo scambiato la lunghezza per complessità, se non per qualità. Certo, al mondo esistono molti gruppi che sviluppano meglio il proprio songwriting avendo a disposizione dieci o dodici minuti. I Maiden, al netto di notevoli eccezioni di cui è costellata la loro carriera, non sono tra questi. O quantomeno non lo sono più. La sensazione è che la struttura adoperata all’epoca di “Fear of the Dark”, con un brano che è rimasto comprensibilmente nel cuore dei fan, sia stata presa a modello di molta produzione successiva, ma dilatando i tempi, moltiplicando gli episodi all’interno dello stesso brano (una maldestra imitazione del progressive, troppo distante dalla loro natura), creando musiche che non brillano per grinta, o per songwriting, o perché toccano corde emotive insolite (con l’eccezione, in Senjutsu, di “The Writing on the Wall”).

Sia chiaro, gli Iron Maiden potrebbero fare cento album come questo e non riuscirebbero a scalfire i meriti che si sono guadagnati nel corso degli anni. È tuttavia difficile, oggi, soprassedere sui limiti di un album come Senjutsu.

Disclaimer: Un refrain che si sente spesso è quello secondo cui occorrerebbero “più ascolti” per apprezzare correttamente un album. Rendo noto di aver ascoltato l’album “soltanto” due volte, la prima per farmi un’opinione, la seconda per poter offrire qualche dettaglio sui singoli brani. In ogni caso il principio è, nel caso degli Iron Maiden, assai discutibile. Come ho cercato di argomentare in questa recensione, lo schema utilizzato dagli Iron Maiden è talmente noto che nessuno che abbia già una conoscenza pregressa della band ha veramente bisogno di un secondo ascolto per “capire bene” quest’album. Si hanno bisogno di più ascolti con i Gojira o con i Leprous, che hanno sviluppato dei linguaggi nuovi, prima rispetto al panorama musicale, poi rispetto a se stessi. Nel caso degli Iron Maiden, gli ascolti successivi servono soltanto a sviluppare una maggiore familiarità con i brani, che ci permetta di riconoscerli. E uno degli errori in cui chi ascolta può incorrere è scambiare la maggiore familiarità che si acquisisce con l’aumentare degli ascolti con quella tipologia di valore che avrebbe bisogno di più impegno per essere scoperto.

Federico Morganti
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7 commenti su ““Senjutsu”, il nuovo (vecchio) album degli Iron Maiden”

  1. Caro Federico è meglio che cambi mestiere lascia stare la musica e soprattutto i Maiden, il disco è tra i migliori della loro ultima produzione se lo hai ascoltato 2 volte hai già detto tutto, ma evita per favore di sparare giudizi a caso non fa proprio per te

  2. Tutto quello che sto per dire riflette il mio personalissimo punto di vista.

    Sento anch’io da molto tempo questa storia che, per apprezzare un album, bisogna ascoltarlo decine di volte e non sono mai stato d’accordo. Secondo me un buon album ti deve colpire allo stomaco dal primo ascolto, deve farti alzare il sopracciglio, deve piacerti. Nei successivi ascolti puoi approfondire, capire meglio certe cosa, apprezzare ancora di più certi passaggi, ecc. ecc., ma il primo impatto è importante perché deve farti venire la vogli di ascoltare l’album ancora e ancora e ancora. A Matter of Life and Death, The Final Frontier, The Book of Souls stanno a prendere polvere da anni, almeno sul mio scaffale. Cosa che non posso dire di Ordinary Man del buon Ozzy o Hardwired… to Self-Destruct dei Metallica, per citare altre due realtà a cui sono molto affezionato e due pubblicazioni recenti.

    Io con i Maiden ci sono cresciuto e non mi aspetto che dopo 40 anni di carriera sfornino qualcosa di rivoluzionario, per questo le mie aspettative per questo nuovo album erano abbastanza basse perché da già da Dance of Death in poi ho iniziato a sentire troppe ripetizioni, troppi schemi che tornavano e tornavano ancora, tanto che si possono cantare interi pezzi di vecchie canzoni su quelle nuove. Finisci per chiederti se lo facciano inconsciamente o se è proprio una cosa voluta.

    Mi sono messo a cercare qualche recensione e ho trovato quasi esclusivamente toni trionfalistici che mi hanno fatto dubitare delle mie facoltà uditive e di quel poco che penso di sapere sulla musica e sui Maiden. Per questo la tua recensione mi ha confortato un po’.

    Detto questo non voglio dire che l’album sia brutto, ma la sensazione che ho è che il gruppo abbia trovato una confort zone, dove non eccelle, ma non fa nemmeno troppo pena. The Writing on the Wall non mi ha per niente entusiasmato, ma finito di ascoltare l’album (più volte) alla fine sembra un pezzone.

    Poi è ovvio che dal vivo faranno le loro magie e ci troveremo tutti a fare i cori anche nelle canzoni più brutte dell’ultimo album, ma a parte questo credo che il disco inizierà a fare polvere nel mio scaffale molto presto.

    • Ciao Denis, grazie mille per il tuo parere! Premesso che avrei accettato e rispettato qualsiasi altro punto di vista, anch’io dopo aver letto il tuo commento mi sento meno solo 🙂
      Alla prossima, Federico

  3. Condivido questa recensione (una delle poche senza le fette di prosciutto sugli occhi che ho letto nelle ultime settimane, o probabilmente non sponsorizzata da nessuno).
    E’ da Brave New World che gli Iron Maiden fanno lo stesso disco, con la stessa struttura infinitamente noiosa, senza spunti che facciano pensare che siano ancora il riferimento che sono stati per almeno 10-15 anni. Chi parla di brani progressive pensa che questo termine sia sinonimo di canzoni lunghe, cosa che gli Irons fanno da B.N.W. Il progressive per come lo conosco io non è mai stato noioso, questo disco degli Iron Maiden lo è eccome (come tutti da B.N.W.). Sto provando a sforzarmi di ascoltarlo, ma non riesco mai finirlo.
    Purtroppo la realtà è che stiamo parlano di musicisti over 60 che tirano a campare con quello che ora riescono a fare. Hanno il loro pubblico: bene per loro. Per me il Metal è ancora emozioni, brividi, motivi che ti rimangono nella testa anche quando fai altro. Non c’è niente di questo qui. Una nota positiva: la copertina, veramente ben fatta che farebbe la sua figura assieme a quelle storiche come Killers, Purgatory etc.

  4. Ciao Federico.
    Avendo poco più della tua età, sono cresciuto con Iron Maiden, Megadeth, Metallica, Dreams Theater etc… I classici degli anni ’80 e ’90.

    Gli spunti che hai sollevato hanno un fondamento, certi sono dei dati di fatto, come le canzoni canzoni molto lunghe o come la struttura che Harris utilizza sempre nelle composizioni, ma non sono d’accordo sulla noia.
    Ad esempio propria questa struttura a me fa vivere molto di più l’atmosfera che vogliono dare, fa entrare molto di più nella canzone e me la fa godere tantissimo dopo.

    Ovviamente non sempre è stato così. Con The Final Frontier non lo è stato, non riesco ad ascoltare quell’album per intero, non mi è mai piaciuta la costruzione delle canzoni e quell’album prende solo polvere, nonostante abbia uno degli artwork tra i più belli di Maiden. Con The Books Of Souls è andata meglio, ma non abbastanza. Anche lì trovo un po’ di difficoltà.

    Senjutsu invece non riesco a smettere di ascoltarlo, a loop. Mi strega, mi piacciono tutte le canzoni, mi piace la costruzione dell’album, mi esaltano le atmosfere, mi piace il susseguirsi dei pezzi. Insomma, per me è uno degli album più riusciti dei Maiden.
    L’ascolterei volentieri quanto ascolto volentieri Powerslave (il mio album preferito) o Somewhere in Time.

    Non sono d’accordo neppure con “bastano due ascolti”. Ogni album ha bisogno del suo tempo, più o meno lungo che sia. Dipende secondo me dalla voglia che si ha di ascoltarlo con orecchio staccato dai propri stereotipi che si hanno in testa.
    Io non ascolto i Maiden pensando “spero che sia come Powerslave”. Io ascolto i Maiden sapendo di trovare un determinato tipo di melodia / sonorità che tendenzialmente mi piace. Poi che sia veloce o lenta non è importante.
    So che sentirò il basso di Harris incalzante o melodico, conosco come suonerà Nicko (che in questo album ho apprezzato tantissimo), sentirò la melodia e il susseguirsi degli assoli di chitarra, sentirò quel cantato avvolgente e ora un po’ sgolato di Bruce che è sempre caratteristico
    La domanda è: mi coinvolgerà? In questo album fortunatamente mi ha coinvolto tantissimo, molto di più degli ultimi precedenti, davvero da apprezzarlo all’infinito, non da fan, ma dal punto di vista musicale, con il cuore e con la mente.

    Ultimo esempio sul numero di ascolti. L’ultimo album dei Transatlantic, The Absolute Universe, è stato difficile digerirlo (ovviamente è moooooolto più complesso di Senjutsu) e ho dovuto sforzarmi per 5/6 ascolti, a volte a pezzi. Lo ritenevo pesantissimo, un po’ la solita solfa Transatlantic, inizialmente noioso. Ora per me è spettacolare, ascoltarlo tutto di fila è bellissimo, mi da delle sensazioni splendide e intense. Va via come il pane e posso dire che è un gran bell’album, nonostante l’imprinting, soprattutto di Neal Morse, sia sempre quello in ogni sua composizione (e ormai ne fa veramente tante!).

    Dopo diversi ascolti senti anche molte chicche e apprezzi tantissimo dettagli che arricchiscono l’ascolto e te lo fanno vedere in modo differente. Solo devi essere pronto e a volte caparbio nel voler ascoltare.

    Quello che voglio dire è che se un album non ci va a genio o una band non è più nelle nostre corde uditive non è detto che significhi che non possa più dare niente alla musica, secondo me significa che siamo noi che non riusciamo più ad ascoltare quel tipo di musica magari per tanti motivi. Vuoi che non ci piace più, vuoi che la troviamo ripetitiva, vuoi che richiama altri album storcendo un bel ricordo, ma questo è soggettivo.

    La mia visione soggettiva è che il mio apprezzamento per Senjutsu è altissimo, ascoltarlo mi fa stare bene, mi esalta e mi diverte.

    Tutto ciò è per dirti, con rispetto per le tue opinioni, che ho visto la tua recensione come un giudizio molto personale, legato troppo a un ricordo del passato, che non vuole aprirsi ad un vero incondizionato ascolto dell’album.
    Ovviamente è ciò che ho percepito, non è un “hai torto” o un “ho ragione solo io”, è la percezione di un giudizio molto personale e magari poco oggettivo.

I commenti sono chiusi.

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