March of the Unheard, Halo Effect: recensione

| |

March of the Unheard è il secolo album del supergruppo Halo Effect, nato dalle ceneri degli In Flames (qui per la recensione di Foregone), uscito il 10 gennaio per Nuclear Blast. E per ora in sospensione di giudizio.

Gli anni rapidi, diceva qualcuno, sono i trenta. Affermazione indubbiamente, dolorosamente vera: e sembra ieri che il (pen)ultimo album degli Halo Effect, Days of the Lost, veniva rilasciato da Nuclear Blast.

The Halo Effect, nati dalle ceneri degli In Flames, per abbracciare la melodia, la nostalgia, la velleità di essere ancora ragazzini per musicisti, in realtà, oramai navigati: Jasper Stromblad, Mikael Stanne, Niclas Engelin, Peter Iwers. Personalmente, avevo amato Days of the Lost – per i riff accoglienti nel loro essere affilati, per il growl ben rodato di Stanne, e per la sua intrinseca, totale, mancanza di innovazione. Anche l’attuale March of the Unheard segue la stessa filosofia: è un po’ come il trasferirsi nel condominio a fianco a quello in cui si è abitato per vent’anni. Tutto è simile: il baretto e il supermercato sono gli stessi, ma i suoni dei vicini sono diversi, e le finestre affacciano su una via differente. Le chitarre si avvitano su se stesse anche su March of the Unheard, così come gli elementi elettronici – sempre ben dosati – creano ritornelli e frasette musicali da capogiro.

Il bello dell’affidabilità. Di una Ford. La certezza che i The Halo Effect non ti lasceranno mai a piedi perché è esplosa la coppa dell’olio.

Già da Conspire to Deceive la formula è evidente: intro elettronica, growl arrabbiato di Stanne, e mix dei due – il suono, composto da chitarre, pad basso e una stranamente poco intrusiva tastiera avvolge la linea vocale, che si perde in essa, e crea un effetto piuttosto easy listening. Di gradevole sottofondo per un lungo viaggio in auto. La successiva Detonate risulta un classico (quasi compitino) sulla falsariga di tutto il melodeath Goteborgiano che è in giro da almeno trent’anni: gradevolissimo, in ogni caso, per via della dignitosissima composizione e studio armonico dietro al chorus – banalmente, la chitarra a supporto a frequenze più alte della linea vocale. A questo punto, devo ammettere che la mia curiosità si era ormai accesa: si può modificare una formula già perfetta? Si può rendere ancora più verde l’Amazzonia? Similmente si comporta Our Channel to the Darkness, aggiungendo, però, alla formula della lead guitar, una serie di minuscoli elementi sonori tali da evocare grandi battaglie titaniche nello spazio esterno – alieni, astronavi, e compagnia cantante. La bellissima Cruel Perception sposa, invece, maggiormente, le ispirazioni del prog romantico dei Seventh Wonder e Kamelot, tolta la mancanza di clean vocals  – mentre lo stile guerresco di OUr channel to the Darkness viene recuperato nella quasi didascalica marcetta (finalmente! Ce l’avevano promessa col titolo!) What we Become. La strumentale This Curse of Silence divide l’album in due e introduce la title track, March of the Unheard – un’energica power ballad che è anche il miglior brano della prima parte dell’LP. Rapida, efficace, sintetica, similmente a Dialogue in B Flat Minor di Foregone degli In Flames. In grado di ascendere nel bridge, e di toccare tutte le corde giuste per un ascoltatore, novellino o fine conoscitore.

the halo effect the march of the unheard recensione

La seconda parte di March of the Unheard è notevolmente migliore della prima. Maggior fermento artistico e compositivo pare essere presente in brani come Forever Astray e A Death that Becomes Us – nella prima, perfino clean vocals appaiono, su una ritmica piuttosto binaria, però: on off, on off sulla chitarra e sulla batteria. Il dinamismo è lasciato, per l’appunto, alla componente melodica. Anche Between Directions è una canzone sorprendentemente gradevole. Di nuovo, spinge sulla componente melodica, con un’eccellente interpretazione emotiva da parte di Stanne – e cita Clayman, e cita gli Orphaned Land, i Dark Tranquillity: un brano così ottimamente scritto che mi fa domandare come mai tale sound barocco, lascivo ed avvolgente non sia stato scelto per l’intero album. L’ultima perla è The Burning Point, una power ballad malinconica, dal suono rotondissimo e sinuoso.

Un suono adulto, ecco.

Invece, i The Halo Effect, nonostante i più di due secoli in quattro, hanno deciso per un’operazione adolescenza, che, nella tracklist, dura per ben cinque brani – tutti gradevoli, ben scritti sia chiaro – per poi lasciare gridare, ad altri cinque brani, l’ingombrante manifesto programmatico di chi vuole, infine, evolvere, e sviluppare il proprio sound.

I complotti sono il meccanismo dell’animo umano per porre ordine nel caos: e in questo caso credo che lo zampino della Nuclear Blast possa aver spinto la produzione verso una certa direzione più nostalgica, più sicura, più affidabile – come una vecchia Ford a diesel. Come un appartamento nel condominio prossimale.

Dal punto di vista della critica musicale, la differenza fra le due parti dell’album è così abissale da risultare incomprensibile, il che mi lascia in quasi sospensione di giudizio nei confronti di March of the Unheard: utilitaria o auto da corsa? Pasta di Gragnano o Barilla? Sincera unione d’intenti di musicisti navigati o operazione di marketing facilmente smascherabile?

Infine, mi tocca, dolentemente, muovere un’altra critica ai cari nordici: ma di cosa parla questo lavoro? Chi sono gli inascoltati che marciano? Dove marciano? In che modo questo LP dovrebbe dar loro voce?

Che sia il successo live del supergruppo a decretare l’ardua sentenza.

Giulia Della Pelle
Previous

Auto nuova, a noleggio o Usata: Qual è la Scelta Giusta?

Il Giappone sulle orme di Kōji Yakusho, protagonista del capolavoro Perfect Days

Next

Lascia un commento

Wordpress Social Share Plugin powered by Ultimatelysocial