The Awakening, Kamelot: recensione

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The Awakening è il nuovo album dei Kamelot, band statunitense power metal, uscito il 17 marzo 2023 per Napalm Records.

La storia dei Kamelot è la storia del power metal stesso. Il genere, nato e cresciuto, storicamente, in Europa, ha, al contrario, nei Kamelot, la sua incarnazione statunitense. Un’incarnazione di enorme successo e che, col tempo, ha creato un piccolo universo di costume attorno a sé – partendo dallo storico vocalist, Roy Khan.

Ci sono stati momenti oscuri per i Kamelot, dopo la dipartita di Khan, durante i quali Fabio Lione fu chiamato a sostituirlo – per poi, purtroppo, essere scartato in favore di Tommy Karevik. E, se, purtroppo, va trovato un punto debole ai Kamelot post Poetry for the Poisoned (l’ultimo album con Roy Khan) è proprio nell’interpretazione di Karevik, che pare abbia molto più da dare, anche umanamente, alla sua band originaria – i Seventh Wonder.

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Ma andiamo con ordine. The Awakening è il tredicesimo album dei Kamelot, anche stavolta composto da Thomas Youngblood, ed i suoi suoni sono splendidi, nel mastering di Jacob Hansen e nella produzione di Sascha Paet. Ricordano i fasti di The Black Halo, sono dolci e rotondi, aguzzi e romantici ma ben definiti, rilassanti ed emozionanti allo stesso tempo. Già dalla ouverture si comprende la cura prestata a questo lavoro, e dalla successiva The Great Divide, che è di Nightwishiana memoria – tipica cavalcata ballad. Eventide continua nella scia narrativa, quasi da musical, mentre la chitarra di Youngblood svolge un enorme lavoro di padding e contrappunto alla voce di Karevik. È però il primo singolo il brano che colpisce profondamente l’ascoltatore: in atmosfere quasi dai tunisini Myrath (con cui la band è attualmente in tour), la mid-tempo One More Flag in the Ground sposa un potente messaggio – l’eroismo di chi combatte per la sua salute mentale, confermando come il power metal moderno sappia fare sue tematiche, finalmente, adulte ed universali. La dolcissima Opus of the Night, assieme al violino di Tina Guo, segue, e non suona da riempitivo, così come accadeva per fin troppe tracce di The Shadow Theory. La modulazione della voce di Karevik, però, purtroppo, in un brano così classicamente Kamelot, ricalca quella del fu Roy Khan, in una sensazione di potente dejà vu di una me sedicenne assorta nell’ascolto di Train of Thoughts da Poetry for the Poisoned. Il songwriting complessivo è però eccezionale, soprattutto nell’accelerazione finale e nel falsetto, delizioso, di Karevik.

The Awakening è un album tenero e romantico, ma scritto da uomini adulti e barbuti: una dichiarazione d’amore all’amore stesso, al valore della dolcezza, dell’empatia e della comprensione reciproca, indipendentemente dal sesso, dalla provenienza e dall’estrazione sociale. Del prendersi cura di se stessi e della propria anima. La centrale Midsummer’s Eve, immersa nello stesso Eden crepuscolare di Human Nature dei Nightwish, esprime al meglio la profondità del temo sotteso – ancora, come capitato per molteplici band della scena, la distruzione della mascolinità eccessiva che ha intossicato per decenni il metal stesso.

Like a dream
On Midsummer’s eve
I’ve come to sweep you away
Seven promises
In her hair
Like a crown
Fit for a queen

Si torna ai Myrath con Bloodmoon, che, purtroppo, suona vagamente da filler, mentre il ritmo torna ad accelerare con Nightsky, che è, forse, un po’ debitrice dell’eccezionale songwriting di Moonglow di Avantasia – ma possiede uno dei migliori refrain mai scritti dai Kamelot. Anche The Looking Glass si mantiene su livelli altissimi, grazie soprattutto all’interpretazione di Karevik e ad una cura particolare della sezione ritmica che controbilancia l’anima eterea del refrain. Ci si rituffa nel power classico con New Babylon, uno dei brani più duri di The Awakening: c’è spazio perfino per un po’ di elettronica  – sempre più diffusa, dagli Amaranthe in poi – assieme alla voce di Melissa Bonny degli Ad Infinitum e ad una prestazione eccezionale di Youngblood. Penultimo brano di The Awakening è Willow, introdotto da un bell’arpeggio di piano di Oliver Palotai su cui si installa la voce di Karevik, carezzevole come non mai: è un brano intenso, low tempo, che serve a ricaricare le batterie. Unico disappunto: la produzione degli archi sembra essere leggermente sottotono rispetto al livello qualitativo totale dell’album. Dopo l’emozionante finale di Willow, c’è ancora spazio per My Pantheon, suite conclusiva dell’album e che, musicalmente, riprende i temi espressi con Eventide, ed, infine, è la strumentale Ephemeral a chiudere l’album.

Sebbene mi dolga ripeterlo, il più grande merito di The Awakening è l’emancipazione di Tommy Karevik da emulo-cosplay (incluso il taglio di barba) di Roy Khan, attualmente impegnato, forse, con i Conception e la finale liberazione del songwriting dall’operazione nostalgia che ha caratterizzato gli anni ’10 dei Kamelot: più influenze, quasi pop, orientali, hanno fatto sì che i Kamelot si scrollassero la loro stessa eredità – a loro volta di Stratovariusiana memoria – e tornassero finalmente ad essere una band di altissimo livello. Che non vediamo l’ora di ammirare live nel tour promozionale di The Awakening. Rotondità, dolcezza, modernità: ecco i nuovi Kamelot.
Giulia Della Pelle
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