Mavi Phoenix, Boys Toys: un personaggio fondamentale per il nostro tempo

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“Mavi remains Mavi because Mavi has always been Mavi” recita un commento su YouTube sotto il video di “Bullet In My Heart”, il singolo uscito a Luglio 2019 in cui l’artista parla per la prima volta della sua condizione di disforia di genere.

“Mavi rimane Mavi perché è sempre stato Mavi”, quindi; ma allora, cerchiamo di capire chi sia effettivamente Mavi Phoenix.

Mavi comincia a muovere primi passi nel mondo della musica a 11 anni, quando scrisse la sua prima canzone armato di laptop e garageband. A 17, nel 2014, rilascia il suo primo EP (“My Fault“), prodotto da lui stesso.

mavi phoenix boys toys recensione
Cover di Boys Toys di Mavi Phoenix.

Adesso, a 23 anni, è senza dubbio l’artista austriaco con maggiore appeal internazionale: il rilascio del suo secondo EP (“Young Prophet“) e la sua hit “Aventura” l’hanno aiutato ad attestarsi definitivamente come tale, e gli inviti a molti festival di rilievo mondiale (Reeperbahn, Roskilde, Primavera), così come le apparizioni in riviste tra le più popolari (The Fader, Higsnobiety, Vogue…) l’hanno certamente premiato in questo senso, confermando il suo rilievo.

Il 3 Aprile di questo 2020 uscirà invece il suo primo album ufficiale, “Boys Toys“, in cui il tema centrale è quello della scoperta graduale di sé e del proprio reale collocamento sullo spettro di genere:

Giocando con svariate delle narrative classiche appartenenti al panorama della mascolinità tossica, Mavi e il suo producer Alex The Flipper tentano di fornire un ritratto il più fedele possibile sottoforma di concept album.

La musica di Mavi si ispira a un range vasto e variegato di sonorità, aspetto che risalta particolarmente in “Boys Toys“: l’album oscilla tra il softboy rap (Drake, Childish Gambino) e l’hyperpop (Charli XCX), con frequentissime incursioni di pop anni ’90 e ’00 e dosi massicce di alternative beats dello stesso periodo (un nome su tutti: Beastie Boys).

Ciò che dona infine unità a questa miscela sono certamente il ricorso a una serie di leit motiv stilistici (un esempio? La voce distorta e alienata presente in numerosi brani, ma ci torneremo più avanti) e in generale l’attitudine stessa del rapper -scanzonato ma sempre in tensione, dolce ma sboccato- che si riflette pienamente nelle parole dei testi.

“Boys Toys” non è solamente il titolo dell’album e del secondo singolo che lo ha preceduto, ma è anche il nome dell’alter ego bambino che accompagna Mavi lungo il corso di tutte e dodici le tracce, attraverso le differenti sfumature della sua vecchia e nuova personalità.

Questo personaggio si rivela all’ascoltatore proprio tramite quella vocina distorta e alienata, forzatamente acuta e vagamente horror, che ricorda a tratti quella presente in molte canzoni dei Die Antwoord: attraverso la voce del bambino, Mavi ci rivela le sue personali emozioni legate a particolari momenti, ci parla dei suoi pensieri spaventosi, degli attimi di sollievo o delle sue speranze.

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In generale Mavi dimostra di essere a suo agio con l’espediente dell’alter-ego, o quantomeno con il gioco delle parti: non è un caso che proprio tramite la messinscena imitatoria e parodistica (forse persino satirica?) si proponga di mostrare tutta una serie di maschere proprie della narrativa forzosamente mascolina, partendo dal Sexy Fuckboy di “Strawberries“, passando dal padre di famiglia in “Family“, fino ad arrivare all’aggressività del brawler (il classico boro: attaccabrighe rende vagamente il concetto) di “Choose Your Fighter”.

Come già detto, l’ambizione è quella di creare un album concettuale: il compito è quindi piuttosto impegnativo, trattandosi inoltre di un album di debutto; senza troppi giri di parole possiamo dire che l’obiettivo sia stato raggiunto, anche se non totalmente.

Questo perché effettivamente si tratta di un album fondato e mosso in toto da un riferimento chiaro, da un concetto, appunto, di fondo: la tematica dell’interiorità di Mavi, e il focus sulla questione della disforia di genere e degli stigma legati alla transessualità vengono senza dubbio a galla, e non in modo rozzo; non si tratta di un’accozzaglia di canzoni sparse, né di un tentativo spasmodico di ricerca della hit, e d’altro canto il messaggio emerge in modo netto ma risulta piacevole e non ripetitivo o eccessivamente autoreferenziale.

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D’altra parte, però, non si può certo dire di riscontrare una certa direzione narrativa, o una coesione stilistica forte, che ci si potrebbe aspertare dai testi di un concept album rap, e lo stesso discorso si potrebbe ugualmente riferire alla musica.

Infatti, probabilmente manca ancora quel pizzico aggiuntivo di maturità musicale (nulla di grave, è il primo album: il ragazzo è giovane e farà strada, il tempo gioca dalla sua parte) necessaria per riuscire a coniugare all’interno del progetto un’uniformità e riconoscibilità sonora netta a uno sviluppo chiaro e preciso.

La sensazione è che l’album sia in un certo senso diviso in due parti che potrebbero essere legate tra loro in un’unità più omogenea, in modo da “girare” meglio: l’album gira comunque, ma è come se fosse percorso a semicerchi, e quello stacco a metà giro -sempre considerando l’obiettivo primario- può comportare una criticità.

Diviso in due parti, dicevamo: la prima metà del disco si preoccupa di lasciare un segno, di piantare la classica bandierina, di delineare uno stile, il nuovo stile (!) di Mavi; è chiaro quindi che il suo coefficiente di interesse sia relativo e proporzionale a tutto quello che si è detto fin’ora: la prima parte dell’album è uno status, questo è Mavi.

A partire dalla sesta traccia (“Bullet in my Heart“), però, si comincia ad assistere a dei cambi di passo più vari e repentini: partendo dalle solide fondamenta poste durante la prima sezione, Mavi comincia realmente a esplorare nuove sonorità di sé; dopo aver fatto immergere e abituare l’orecchio dell’ascoltatore, seppur comunque a sonorità non sempre comodissime, qui comincia a stuzzicarlo, trovando così la chiave e la forza per arrivare a fine album senza stancare.

In “Bullet in my Heart” pesca sonorità vagamente vaporwave, in cui l’onirico viene però continuamente rienergizzato da un set di percussioni molto presente all’udito; in generale le sonorità spensierate e placide sorprendono all’interno dell’economia del disco e cozzano violentemente con le parole pesanti e drammatiche di un testo che parla di sacrificio, seppur amoroso, e sostanzialmente di morte, di paura, angoscia, di smarrimento.

Strawberries”, l’ottava traccia, riprende lo stereotipo del Sexy Fuckboy, impersonandolo ironicamente su una base che trae a piene mani dalla trap americana 2016/2017, dai Migos e specialmente da Lil Uzi Vert, con sporadiche incursioni di una tromba sempre più intensa con il procedere della traccia.

La chiosa poi, pronunciata dalla solita vocina, è autoesplicativa e a dir poco emblematica di tutto l’album stesso:

Just because my voice is high, doesn’t mean I’m not a guy.

Passando poi al decimo brano, “Family“, troviamo sonorità più acustiche, con una chitarra e delle percussioni dal suono molto più analogico rispetto al resto dell’album; il testo si propone di traslare il concetto classico di famiglia occidentale nel piano di immanenza del 2020, cercando cioè di far risaltare tutte le (molte) necessità differenti da tenere in considerazione: non è un caso il riferimento esplicito al climate change, ed è ovvio che in gioco ci sia la sfida stessa all’istituzione famigliare, rispetto alla sua capacità o meno di accogliere nel suo paradigma famiglie fino ad ora considerate innaturali, o non considerate tali del tutto.

Post Summer“, l’undicesima traccia, ci proietta in un panorama sonoro situato a metà tra il lo-fi e la classica 808, tenendo però viva una punta di vaporwave e una bell che grida anni ’00 da tutti i pori: la miscela funziona, ricorda vagamente l’ultimo Justin Bieber e regala uno dei brani in assoluto più riusciti dell’album; delicato e sognante, impregnato dalla profonda nostalgia di fine estate ma al contempo capace di guardare al futuro, seppur con incertezza e angoscia per la propria fragilità. Vi è un’apertura timida, timorosa delle tante possibilità, e una chiusura disillusa:

You are not the innocent cutie people might think you are, people think you always wanna help people and you’re an angel, but you’re not, I know the real you.

Who I am”, infine, è il pezzo che chiude l’album: un pianoforte detta la linea melodica di un brano finalmente del tutto sereno, simbolo di un percorso pienamente concluso; un finale rispecchia la soddisfazione, la maturazione, persino la realizzazione in fondo non solo di una ricerca artistica, ma persino esistenziale, personale.

Non è questione puramente metaforica, ma propriamente reale, fisica, radicata nel corpo di Mavi (“I gotta say i feel much better now, just do whatever the fuck you wanna do, okay? And that’s it” ci ricorda la vocina); ed è anche una questione musicale, perché nemmeno a farlo apposta, assieme a “Post Summer”, davvero si può dire che ‘Who I am” sia uno dei pezzi più completi e meglio riusciti dell’intero disco.

Dulcis in fundo, il coro che si aggiunge a Mavi verso metà del brano, cantando il ritornello, è ciò che sancisce in modo definitivo il sentimento di positività e speranza (e perché no, la visione normativa) che l’artista austriaco vuole esprimere: non è casuale che questa sia l’unica volta in cui un coro di un qualsiasi tipo viene utilizzato all’interno dell’opera, e non è un caso proprio perché sta a significare quel lieto fine di accettazione, espressione e condivisione delle differenze non solo a livello individuale, ma anche globalmente sociale, dopo un cammimo tortuosissimo e grandemente costellato di difficoltà, molte delle quali affrontate da Mavi in completa solitudine.

In definitiva, “Boys Toys” è un album denso di emotività, pullulante di impulsi elettrici molto vari e distinti tra loro, e potremmo dire che trovi la sua forza, artisticamente e concettualmente, proprio nell’assenza di categorie.

In questo senso è davvero un autoritratto di Mavi, e un autoritratto del 2020: non statico, non in posa, ma esteso, fluido, polimorfo, forse anche sfocato, poiché in movimento.

Questa è la fondazione di Mavi, e vale la pena prestarci attenzione.

Antonio Sartori
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