Childish Gambino, la grandiosità del nuovo 3.15.20

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La storia di 3.15.20 comincia, ça va sans dire, il 15 Marzo 2020, quando Donald Glover rilascia sul sito donaldgloverpresents.com quello che sembrava essere il nuovo album di Childish Gambino.

Il disco scomparirà il giorno dopo. Al suo posto, appare un conto alla rovescia, che termina Domenica 22 Marzo.

A quel punto l’album viene pubblicato, questa volta davvero e definitivamente, in due versioni, entrambe rigorosamente digitali: la prima, track by track, su spotify e varie piattaforme di streaming e musica online; la seconda, in formato unico, senza pause, sempre sul sito donaldgloverpresents.com, ma per un tempo limitato.

Nessuna differenza apparentemente

A parte la copertina, che nella versione track by track è totalmente bianca -oscillando tra un riferimento a Malevich (per i fan più affezionati), una svogliatezza pretenziosa (per i detrattori) e un rimando simbolico all’atmosfera che domina l’album (per tutti gli altri)- mentre nella versione continua è arricchita da una scritta, anch’essa bianca, in sovrimpressione, recitante “Donald Glover presents”.

Childish Gambino

E poi, ovviamente, è il formato in sé a essere differente: significativo in realtà, perché pare che Gambino voglia in qualche modo consigliare fortemente un ascolto unitario e continuo dell’album, che possa far immergere in toto l’ascoltatore nella vasta esperienza sonora e più in generale sensoriale che l’artista intende offrire (indicazione che a tratti pare una citazione all’invito esplicito in tal senso espresso da Tyler, the creator sul retro di “IGOR”).

Dicevamo, Childish Gambino (perché di Childish Gambino si tratta, e non ancora di Donald Glover attraverso il nome di battesimo, come invece si era vociferato) dopo “Awaken, My Love!” (2016) e lo straordinario successo di “This is America” con relativo video diretto da Hiro Murai (2018), torna nel 2020 con un LP composto da 12 tracce e dotato di un comparto presentativo piuttosto minimale: si noti, oltre alla copertina totalmente bianca già menzionata, la quasi totale mancanza di nomi assegnati ai diversi brani; difatti, solo “Algorhythm” e “Time” godono di un nome proprio, gli altri sono indicati dal minuto e dal secondo in cui la traccia idealmente comincerebbe se si ascoltasse l’album in maniera continua: persino “Feels like summer”, unico brano già edito del disco, già singolo di successo tanto da essere incluso nella colonna sonora di FIFA19, viene tramutato in “42.26”.

Tra i vari nomi di artisti che hanno collaborato alla realizzazione dell’album si possono citare Ariana Grande (in “Time”), 21 Savage (“12.38”), Ludwig Göransson (“19.10”, “32.22”, “42.26”, “47.48”), Khadja Bonet (“12.38”), Peaches Monroe (“35.31”); spicca, poi, persino il “feat” del più grande dei due figli di Glover, Legend, nato nel 2017 (in “47.48”).

Ma passiamo all’ascolto dell’opera

Si parte con un’introduzione dolce e graduale alle tonalità neo-soul, psychedelic-soul e alternative R&B caratteristiche dell’artista, con una serie di sperimentazione vocali vagamente à la Bon Iver.

Subito dopo troviamo “Algorhythm“, che con il suo ritmo martellante ed elastico, ma in qualche modo alienato e distante, apostrofa l’ascoltatore con un invito a ballare piuttosto atipico e disorientante, terminando con un chaos rumoroso che, riordinandosi, sfocia poi in “Time“: l’atmosfera funky suona familiare, tuttavia salta subito all’orecchio l’affidamento nettamente maggiore da parte di Gambino a sintetizzatori e in generale a una strumentazione digitale; certo, rimangono forti le influenze soul e i rimandi alla cultura musicale afroamericana, tuttavia le sonorità si ibridano forgiando una prospettiva più prettamente futuristica.

Comincia qui a emergere l’assoluta necessità del sapersi abbandonare, del lasciarsi avvolgere dalle sonorità, anche se a prima vista vaghe, velleitarie, persino prive di una direzione forte

Questo sentimento è infatti fondamentale e fondante (cioè fondativo) di “12:38“, nel suo ciondolare pigro ma mai realmente annoiato; per usare degli inglesismi di gran voga: la vibe è straordinariamente chill.

E poi arriva 21 Savage. Sempre sulla stessa traccia psychedelic-soul. E funziona alla grande: il pezzo mantiene la sua vena di freschezza e grande trasporto, riuscendo a pulsare perpetuamente di energia nuova ma senza nemmeno trasmettere la più piccola parvenza di frenesia; al limite un filo di angoscia, gli ultimi secondi, che però è funzionale a introdurre “19.10“.

Brano altamente percussivo, questo, e che ricorda vagamente Bruno Mars: saltellante ma morbido, scintillante e perfetto per una qualsiasi challenge in cui la sfida sia quella di non muoversi.

In due parole? Tornando ai tanti amati inglesismi: smooth and catchy

Anche qui, comunque, il finale straniante non può mancare; i rumori son quelli di un altro mondo, e così ci ritroviamo catapultati in “24.19“: un brano in qualche modo di transizione, in cui si abbassano leggermente i toni e si viene cullati dalla litania continua e sonnacchiosa della melodia, dalle percussioni smussate, in generale dalla eco che anima il brano.

Un fade out delicatissimo, da manuale, inghiotte il pezzo nel silenzio, ma non è finita qui: nel minuto conclusivo (dei sette, si tratta infatti della traccia più lunga) si assiste sonoricamente a una messa in scena di suoni da installazione artistica: l’ansimare di un uomo, probabilmente un orgasmo, accompagnato da una percussione dal gusto tribale e ovattato.

Si giunge quindi un po’ frastornati a “32.33“, aperto dalle pulsazioni di un basso incalzante; poi, pressoché da subito e del tutto noncurante dello stato già confusionale dell’ascoltatore, getta questo con arroganza in un turbine stordente e allucinato ma denso di fascino e senso del sublime, grazie a una miscela isterica di industrial, trip-hop, e club (anche se rispettivamente decostruite e reinnestate continuamente tra loro).

Gli ultimi quattro minuti (contando anche il minuto finale di “24.19”) sono sperimentazione pura, l’interesse viene totalmente catalizzato

Poi il sogno svanisce.

Ma era davvero un sogno? Forse più un incubo, ammesso che il termine si possa utilizzare in senso positivo. Il tedesco forse ci viene in soccorso: “Traum“; sogno sì, ma etimologicamente prossimo al greco “Trauma”, cioè ferita.

In ogni caso, dicevamo, il sogno svanisce.

Svanisce perché con “35.31” la prospettiva si ribalta del tutto, almeno per quanto riguarda l’inizio: ci ritroviamo in un ambiente inaspettato, vagamente country e innervato da una percussione e un coro quasi infantili, che suonano come stereotipati; persino il filtro utilizzato da Gambino pare fuori contesto rispetto all’album. Meno male che poi arriva Göransson a riportare le cose al loro posto, cioè a quello sbagliato: era tutto troppo roseo e posticcio, si torna a un po’ di visceralità.

39.28” si configura inizialmente come un massiccio stop sotto forma di coro: inchioda, costringe l’ascoltatore a cambiare di posizione, a prendere nuove distanze, a pesare i silenzi; e quindi anche ad ascoltare meglio le parole.

“Why go to the party at all?”, d’altronde stiamo affrontando una pandemia

Le voci ricordano alla lontana quelle di “Bohemian Rhapsody”, ma non fremono di armonia: i versi sono discordanti, disturbanti, nonostante le armonizzazioni.

C’è musica, certo, ma forse non c’è musicalità in senso classico: è un’altra dimensione, la cifra è quella della scomodità delle piccole cose.

Dei grugniti animaleschi mutano ulteriormente il campo, e quando ci si sta per aspettare l’inaspettabile, arriva l’inaspettato sotto forma di già conosciuto: “Feels Like Summer” appunto, che qui cambia nome in “42.26“; sarà perché già sentita, l’effetto è quello di distacco dalla totalità che il disco ambisce ad essere. Ma è più un effetto dell’abitudine all’ascolto, sicuramente fomentata dall’inserimento del brano all’interno di una colonna sonora ampiamente frequentata come quella di FIFA19: a mente fredda in ogni caso si notano delle leggere differenze dalla traccia del singolo, come parecchi suoni di sottofondo in aggiunta e una produzione più curata ed eclettica.

Per il resto, il brano è quello: canzone godibile, dolce, incantata, incarna il romanticismo delle estati.

Altro giro, altra ambientazione, altro regalo; le chitarre di “47.48” viaggiano nello spazio, poi una breve pausa e il pezzo inizia davvero: di nuovo torna prepotentemente l’influenza psichedelica che fa da tappeto perfetto per le parole di Gambino che, dotato di un filtro ben più interessante rispetto a “35.31”, si concentra sul refrain di “the violence”.

Il brano si conclude con dialogo tra Glover e la figlia, in particolare con il passaggio finale: “I love myself”, dice lei, prima di chiedere “Do you love yourself?”. C’è poco da aggiungere: è la semplicità spiazzante dei bambini, capace di mettere in crisi l’umano in senso lato; strappalacrime.

Infine, “53.49”, si apre come pezzo punk; punk? Sì, perché tanto un senso non c’è e non vale nemmeno la pena cercarlo; il che ovviamente è qualcosa di positivo, perché permette a Gambino di regalarci anche un bridge splendido (“under the sun”) anche se, appunto, totalmente insensato, fuori da ogni logica: sorprendente.

Passando alle considerazioni generali, si potrebbe avanzare un appunto: quel che sembrerebbe non essere stato approfondito abbastanza è la parte testuale, che a tratti risulta un filo carente di forza ed elaborazione

Tuttavia, è evidente che il focus sia posto sul suono, e in un certo senso la testualità non troppo pronunciata può essere intesa come elemento funzionale all’espressione massima dell’esperienza sonora: la prospettiva corretta allora sarebbe forse quella di usare le parole (non a caso spesso ripetute),come trampolini di lancio, come spunti: da lì poi tuffarsi nelle sonorità e lasciarsi trasportare da esse, eventualmente elaborando nella propria soggettività, guidati dalla musica, gli slanci proposti.

In ogni caso parliamoci chiaro: 3.15.20 potrebbe tranquillamente trattarsi del miglior album rilasciato da Childish Gambino fino a questo momento

Si tratta di una restituzione assolutamente gloriosa del suo percorso: miscelando elementi di elettronica, funk, neo-soul, industrial hip-hop, e psichedelia (c’è persino un non so che di Pink Floyd) Gambino segna un benchmark ben netto e riconoscibile per questo 2020 e in generale per la musica americana.

La potenza straniante di questo lavoro, le sperimentazioni, il senso di confusione dato dai repentini cambi di direzione: tutto concorre a scattare una diapositiva angosciosa ma clinica, precisissima proprio perché confusa, del sentimento diffuso che anima molte società del nostro tempo, soprattutto tra i più giovani, soprattutto in questi giorni di pandemia (paradossale e imprevedibile coincidenza) che amplificano irrimediabilmente la dissonanza costante in cui siamo immersi.

Antonio Sartori
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