I Sonic Youth continuano a riesumare dagli archivi il loro materiale inedito e a 34 anni di distanza da Daydream Nation ripropongono un live risalente al tour a supporto dello storico album del 1988
“I bought another Sonic Youth album and it sucked… it’s just noise“
Era il 2007 quando Juno MacGuff, l’iconica protagonista del film di Jason Reitman, pronunciava con malcelato disprezzo queste parole. I Sonic Youth l’anno precedente avevano pubblicato Rather Ripped e due anni dopo presenteranno The Eternal, ironicamente, visto il titolo, il loro ultimo lavoro in studio.
Da allora potranno anche essersi sciolti, dilaniati dalla fine del matrimonio tra Thurstone Moore e Kim Gordon, ma non se ne sono mai veramente andati ed hanno aperto ai fan le porte dei loro archivi, pubblicando, tra Spotify e Bandcamp, una ingente quantità di materiale inedito e, a giudicare dall’episodio di Show Us Your Junk! in cui Lee Ranaldo ci conduce all’interno dei loro studi, ne avranno ancora per un bel po’.
Take My Hand è l’ultima di queste pubblicazioni e giunge, non totalmente a caso, a meno di un anno di distanza dall’album di inediti strumentali In/out/in. L’occasione è quella di festeggiare i 34 anni dall’uscita di Daydream Nation, il loro disco più celebre, l’ultimo pubblicato prima del passaggio alla Geffen Records, la mayor statunitense con la quale due anni dopo lanceranno Goo, un’altra pietra miliare che definirà ancora di più lo stile e le sonorità dei Padrini del Noise.
Fatta eccezione per la prima traccia, Brother James (proveniente da Confusion Is Sex del 1983) tutte le altre sono tratte dal disco del 1988, iniziando da dove Daydream Nation finiva, con The Wonder e Hyperstation; nella parte centrale del disco arrivano i veri capisaldi, Silver Rocket e Teen Age Riot, due tra i brani più iconici degli Youth, mentre a chiudere le danze ci pensa la voce di Gordon in The Sprawl.
Due sono gli obbiettivi non dichiarati dell’album. Il primo è la celebrazione del disco originale, passata rapidamente in sordina sui canali social dei membri del gruppo senza un reale interesse, il tutto giustificato anche dalle avviate carriere soliste di Gordon, Moore e Ranaldo. Basti pensare che di Take My Hand non si trova traccia sui profili della band e che solo il casuale desiderio di sentire un pezzo degli Youth ci ha condotto alla scoperta della pubblicazione dell’album, non senza un filo di stupore.
Il secondo obbiettivo è invece quello di fotografare un periodo ben preciso del gruppo. Il 1988 è infatti un anno cruciale non solo sul piano discografico ma anche a livello sonoro. Gli Youth iniziano a ridurre progressivamente le influenze jazz che avevano caratterizzato i loro primi album, con pezzi non facilmente accessibili, non solo per l’ampio uso delle dissonanze e dei riverberi, che comunque rimarranno un marchio di fabbrica della band per tutto l’arco della loro carriera, ma anche per le strutture date ai brani, spesso disorientanti e astratti.
Con Daydream Nation le distorsioni sono sempre accompagnate dalle linee melodiche, affidate il più delle volte alle voci di modo che queste rendano maggiormente fruibili i brani, i testi guadagnano un ruolo sempre più centrale e lo stesso metodo compositivo è studiato per alternare momenti caotici ad altri molto più blandi e stratificati.
In Take my hand troviamo dei Sonic Youth ancora legati alla prima fase della loro produzione. Il disco dura poco meno di trenta minuti e ripropone versioni molto più scarne e violente delle loro controparti in studio; basti prendere ad esempio Teenage Riot, monca del lungo cappello introduttivo, viene qui suonata in maniera molto più rapida, risolvendosi in appena quattro minuti. Anche un altro brano, Eric’s Trip, risulta molto più irruenta e confusionaria, con il cantato di Lee, già spigoloso nella versione studio della canzone, che superando di poco il livello delle chitarre, finisce per essere poco comprensibile.
L’immagine che ne emerge è quella di un gruppo capace di dare il meglio di sé nelle esibizioni live, dove il valore da perseguire non è la fedeltà all’originale ma quella di ridare al pubblico l’aggressività delle canzoni, che viene elevata ad arte dai giochi sonori che Moore e Ranaldo intrecciano con le loro chitarre.
Dovremo aspettare la seconda fase della carriera degli Youth per trovare nei live una disciplina tale da coniugare i momenti caotici del noise dei primi album con i riff maggiormente definiti, più vicini alle sonorità rock, degli ultimi. Non a caso, dalla fine degli anni ’90 in poi, saranno affiancati sul palco da turnisti di spessore, tra i quali Mark Ibold dei Pavement, che sostituendo in alcuni brani Gordon al basso, permetterà alla band di presentarsi sul palco con un trittico di chitarre, liberando Lee o Moore dalla necessità di seguire pedissequamente la linea della chitarra e di sviare sulle improvvisazioni noise, marchio di fabbrica del gruppo.
Nota dolente del disco è la sua qualità sonora. Si sente purtroppo come la registrazione originale non sia di qualità eccelsa e, per quanto la pubblicazione sia stata ripulita, il suono rimane quello di un bootleg di lusso, in cui addirittura le code dei brani appaiono tagliate. Un problema, questo, non nuovo al materiale live dei Sonic Youth e dovuto in parte alla conservazione dei nastri originali ma anche, e forse soprattutto, alla difficoltà di rappresentare l’impeto di un momento in cui la band era ancora fortemente attratta da un noise in parte privo di compromessi e vicino alla scena punk dell’epoca.
In conclusione, Take my Hand non mostra un lato inedito di Moore e soci, né serve da viatico a chi voglia approcciarsi per la prima volta al gruppo; si colloca casomai in quell’insieme di prodotti rivolti a chi già conosce la band. Un live, insomma, non irresistibile e che serve in realtà ad un unico scopo, quello di farci ritornare a Daydream Nation, al noise dei Sonic Youth che, per quanto ne dica Juno, no, non era solo rumore.
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