Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space è il capolavoro della neopsichedelia degli anni ’90 inaugurata dai Radiohead: incentrato su amore, droga, squarcia il Velo di Maya che separa intimità dell’artista e percezione del fruitore, creando un’esperienza collettiva.
Quanti di voi, in questo periodo, stanno vivendo un conflitto interiore?
Quella sensazione di noia, intorpidimento mentale, misto ad una continua stimolazione del sistema nervoso simpatico – l’ansia, la paura, l’ignoto che si avvicina sotto forma di camionette dell’esercito, araldo di una tragedia che l’umanità non ricorda più di aver mai vissuto – e ad un vago, confuso, che sa di dormiveglia, senso di colpa; perché il mondo che abbiamo lasciato è ancora là. In status criogenico, oppure, più probabilmente, in lentissimo disfacimento, ogni secondo di più.
Là, quando tornerò in laboratorio, ci saranno ancora i miei insetti stecco; ci saranno ancora le mie pipette. La lunga fila di reagenti di kit perfettamente ordinata di Cristina. La vetreria di Andrea. Le cellule di Paolo. Ci sarà ancora l’impianto stereo che mi accompagna durante le lunghe ore. Ci sarà ancora il mio cuore spezzato, abbandonato in larga parte un giorno in ufficio, ci saranno ancora i sorrisi che rivolgerò ai colleghi. Ma come sarà, quel minuscolo mondo accademico? Come sarà cambiato?
Sarà un sosia di ciò che era prima, una versione rimpastata malamente – geni MADS-box ricombinati – una copia smozzicata, disegnata da un bambino, da un mangaka tremolante, o splenderà di nuovi colori? Sarà un copia incolla falsato da una mano poco sicura? Il velo, il vetro della finestra, le impronte polverose delle gocce di pioggia, che è calato sulla nostra realtà così all’improvviso, continuerà ad offuscare la percezione? L’udito, una volta capace di discriminare fra mille voci quella di nostro interesse, è ora iper reattivo – le conversazioni dei vicini, i loro sfoghi, non sono mai stati così inevitabili. La vista, stanca per le troppe ore al computer. L’olfatto: una volta l’odore sgradevole d’umanità ci permeava le narici, ogni giorno, sotto i tunnel della metropolitana – termitai, trappole per talpe – ma, ora, cosa mai non daremmo per tutta quella vita?
Tutta quella vita.
La vita che scorre sotto le dita, al di sotto dell’epidermide, nelle cellule sensoriali, nei corpuscoli del Pacini: nei ricordi del tatto del corpo di un’altra persona. Sensazione lucide come unghie sulla lavagna, potenti e totalizzanti nell’amplificazione del nulla che viviamo quotidianamente.
in questi giorni, sebbene fingiamo di nasconderci dietro una cortina di serie tv, film, intrattenimenti che assomigliano più ad un obbligo che a una liberazione, risultiamo essere a tu per tu con noi stessi, per troppo tempo dimenticati.
Il mondo, quando lo scopriremo di nuovo, come sarà?
Un indizio, un’idea, ce l’ho. Un’idea che venne nel 1997 agli Spiritualized, la non più coppia Jason Pierce e Kate Radley: Kate, infatti, sposò in gran segreto Richard Ashcroft dei Verve. Non saprei spiegarmi la scelta della musicista; fatto sta che Pierce incanalò il dolore nella composizione di uno degli album art pop più belli della storia della musica.
Ladies and Gentlemen We are Floating in Space.
Ed è il vinile che, dal giradischi – grande acquisto, per la quarantena – mi e ci accompagnerà questa sera.
Ecco, eccolo il nostro mondo, con le sue erbacce ai lati della strada, i gatti che hanno reclamato i parchi, il foliage, il cielo senza una nuvola, libero da PM10: il nostro mondo sarà un ricordo distante, obnubliato. Come I Can’t Help Falling in Love di Elvis Presley è solo vaga ispirazione, campionatura, pallida scusa per reclamare il proprio libero arbitrio ed il proprio antropocentrismo, per il brano iniziale, la title track Ladies And Gentlemen We are Floating in Space. Elvis è distante, nello spazio e nel tempo, e l’entanglement non basta ad impedirgli di allontanarsi: Elvis è un fantasma deprivato di Vitamina D – quella che produciamo esponendoci al Sole – Elvis sussurra il suo bisogno d’amore tramite la voce di Pierce, che, a sua volta, si rivolge a Kate, in un uroboro universale. In un coro gigantesco, infinito, che reclama solamente ciò che, intimamente, tutti sentiamo di avere diritto.
Di essere amati.
All I want in life’s a little bit of love
To take the pain away
Getting strong today
A giant step each day
Synth stratificati su archi stratificati su timpani su campane su chitarra elettrica: una malinconica orgia spaziale, un affastellarsi di pensieri confusi – attraverso un vetro sporco – ma tutti onesti, lucidi, sinceri. Un quartetto d’archi intero, un mixing a cura di John Leckie; Ladies and Gentlement we are Floating in Space scorre fin troppo presto, un amore che è bruciato troppo in fretta.
Ne avremmo voluto ancora, di quella vita senza pensieri. In cui potevamo toccarci l’un l’altro come volevamo. Sfiorandoci, mescolandoci, urlandoci in faccia orrori e bellezze.
Wise man said: “Only Fools Rush In”.
Il citazionismo ai classici del passato, ancora, pallido ricordo di una civiltà gloriosa, si ha nella beatlesiana Come Together, che recupera anche in parte l’anima Shoegaze del nostro Spaceman 3:
Little J is sad and fucked
First, he jumped and then he looked
The tracks of time, those tracks of mine
Little J is occupied
Tanto occupato, così impegnato, Johnny, da lanciarsi dal balcone – o in un mix di droghe psichedeliche – da farlo senza guardare neppure il punto d’atterraggio. Così distratto. Così preso da sé. Ciò che Little J non sa che siamo tutti, tutti, tutti fottuti.
Prendo il cavatappi, scelgo una bottiglia dalla cantina che, Sars-Cov-2 permettendo, continua ad arricchirsi: è un Gewurtztraminer Kolbenhof del 2016. Frizzante, fresco, originale. Riporta memorie d’estate, di feste in piscina, di sapore di rossetto, di sigaretta fra le dita e odore di smalto appena asciugato. Di abbronzatura. Mentre me ne verso un calice, inizia I Think I’m in Love, terzo brano da Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space.
Ed è una storia d’amore a gravità 0, quella narrata qui dagli Spiritualized: un’armonica blues, un po’ country, un po’ bluegrass, otto ipnotici minuti; senza gravità, ma in preda alla più tremenda ubriachezza. Pierce racconta, fra una tromba ed un corno francese, che ama la sua lei più di quanto intensa sia un’esperienza col DMT – e lo fa con voce sbiascicata, come quando si alza troppo il gomito. “Me la sono presa brutta proprio brutta”, confessa, mentre l’orchestrina continua a suonare nel suo immaginario pub. “E’ contagiosa”.
Così contagiosa che diviene ossessione – permeante, penetrante, infettiva, le sue ife strisciano nell’animo noise di All of My Thoughts, quarto brano di Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space degli Spiritualized.
Disperato mellotron e accorato arpeggio di piano accolgono l’ascoltatore nella minuscola breccia nella follia che Pierce ha nutrito e pasciuto per la dipartita della moglie; evolvendo, poi, in un’esplosione post rock di orchestrazioni incredibilmente complesse ed equilibri di dissonanze di difficile gestione. Decelerazioni, flussi di coscienza come lampade al neon – e l’intensità del sentimento del singolo, il musicista, il trasmettitore, l’artista, diviene universale. Diviene comune all’ascoltatore. E non gli appartiene più: appartiene al mondo. In una singola bolla, sospesa nel tempo, a gravità 0, lontana da ogni accogliente astro, persa in una nebulosa fatta d’idrogeno molecolare: là, in quel momento eterno, là, avviene la comprensione finale.
Sei innamorato? Sei innamorata?
Sì.
E allora quel sentimento, disperante e gratificante in modo quasi masochista, crescerà dentro di te, come è cresciuto in Jason Pierce, che ha saputo trasmetterlo con la sua tastiera e la sua voce; Stay with me, ancor più accorata richiesta di “slide together”, ne è testimone. Qualunque psichedelia è concessa, nella bolla a gravità 0.
Nel mentre, sull’Italia è calata la notte. È calata anche sul mio balcone, dove siedo, un po’ infreddolita, a ricordare e ad ascoltare Electricity, gioiosa e geniale psichedelia di Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space degli Spiritualized. Il lago è ancora là, nascosto dal buio, ma è ancora là. Se solo potessi uscire, potrei bagnarmi le mani dell’acqua fredda, affondare i piedi nella sabbia. Il mondo intero è ancora là. È là fuori. C’è.
Qual è il confine fra bisogno e amore?, mi spinge Home of the Brave a domandarmi, mentre mi verso un altro calice di vino. È un confine frastagliato, non scorre placido come quello fra Egitto e Libia: è quello fra condizione e patologia, è quello che intercorre fra ossessione e creatività. E Home of the Brave gestisce quel confine altalenante con incredibile eleganza: partendo come una ninnananna, Pierce piange il suo bisogno di droghe per sopportare l’assenza dell’amata, evolvendo in una disperata ricerca di positività nel chorus mascherato da noise:
I’m gonna rip it up
Tear it out
Gotta get you off of my soul
Poco fa ho nominato le ife. Beh, le ife sono le radici dei funghi. Sono strutture che si accrescono pian piano, facendosi strada nel materiale che infestano, degradandolo e piegandolo ai propri scopi. Corrodono, liquefano anche il legno più duro, rendono marcescente e flaccida la materia organica più dura: tutti, tutti, tutti, siamo soggetti ad una reazione di tale portata. È la nostra chimica. Non solo quella di Pierce. Non solo quella degli Spiritualized. Non solo quella di Abe e Kiki de L’Impero dei Sensi.
E di fin troppo cinema, in questa quarantena, ci stiamo nutrendo. Cinema che in fondo non capiamo, che fingiamo di comprendere, di essere critici riguardo opere che non sapremo mai neppure uguagliare: che hanno musica, in sottofondo, che sfugge ai nostri sensi. Che si muove al sotto della soglia dell’udibile, come gocce troppo sottili per essere viste attraverso un vetro sporco. Perché, anche ora, anche nel nostro nulla, anche nella disoccupazione forzata e nell’imbozzolamento di seta di cotone di lenzuoli solitari, siamo ancora troppo occupati. Occupati a ricordare quel mondo. Occupati a fingere, con tracotante convinzione di essere completamente padroni del proprio Io. Io, con un bicchiere di vino bianco in mano, quello che a lui non piaceva, frizzante e leggero, sono ancora troppo impegnata a fissare bibliografia e pagine bianche per ricordarmi di curare il mio cuore infranto. Archi, synth, fiati orchestrali: Broken Heart è uno spaziale remind, un post it galattico che tutto coinvolge – malinconia, amore, tristezza, infinita gioia. Il cuore che batte troppo forte, le scariche di serotonina; le lacrime, gli occhi gonfi da nascondere con il trucco, perché domani – un domani che, per ora, non c’è più – si dovrà sorridere di nuovo. Dolceamaro. Agrodolce. La dignità dell’essere innamorati, del non vergognarsi di ciò che si è: Pierce l’ha infine messo in musica.
La struggente bellezza di sapersi vivi, di sentire i propri polsi tremare e le gambe non sorreggere; di avere un corpo che, pur essendo composto degli stessi identici elementi dei quali è composto il magico lievito in grado di trasformare l’uva in vino, è in grado di vibrare, di lasciare che memorie di futuri mai realizzatisi – ah, che male – possano far soffrire come uno schiaffo, come una caduta rovinosa, come la fame, come la sete. Che fenomeni tanto primordiali possano essere causati da una semplice, rilucente, solida, mancanza. No God Only Religion corre in mio soccorso, col suo frastuono di fiati e chitarra elettrica, ed il suo gioioso caos da parata noise, seconda e pregevole strumentale dell’album dopo The Individual.
Il tatto. Ciò che manca più all’umanità intera, colpita nell’intimo da un nemico troppo piccolo per essere considerato tangibile – e quindi, nemico più dell’animo che del corpo – è sentire l’altro. Toccarsi, abbracciarsi, semplice pressione di pelle contro pelle. Dormire insieme alla persona amata. Una ninnananna, e guardare nella luce soffusa gli occhi dell’altro chiudersi dietro le ciglia – occhi azzurri, dietro ciglia bionde, e occhi neri, ciglia nere – e, con un molle dondolare, sparire a propria volta.
Cool Waves, un dolcissimo ondeggiare attorno ad un addio che Pierce vorrebbe disperatamente rimandare. In un crescendo gospel che trascina, in quel
Cool water, running free
Lay your sweet hand on me
‘Cause I love you
Love you
Love you
Sento montare uno strano orgoglio in me.
Ben poche luci sono accese dall’altra parte del lago, ed è arrivato il momento di andare a dormire. La quarantena ha già sconvolto abbastanza i ritmi circadiani, meglio cercare di evitare che anche l’alcol vi si aggiunga. Cop Shoot Cop, un’infinita suite di quasi venti minuti, va a chiudere Ladies and Gentlement We Are Floating in Space: c’è tanto di anni ’60, c’è tanto di Velvet Underground & Nico, lasciati, però, fluttuare fra le stelle sintetiche di un universo che esiste solo nella bolla creata dalla magia del materiale. La bolla in cui la psichedelia negli anni ’90 era ancora cosa fattibile – quella Bolla che sputò fuori anche un certo Ok Computer. Brano più marcatamente rock dell’album, rimanda al binomio amore/droga già trattato in Home of The Brave.
Non c’è, però, una speranza finale, e neppure un cupo fatalismo, nel gran finale. C’è solo l’accorata, cui fa preludio un’orgia di rumoir, ottoni come clacson, in cui un disperato piano cerca di mettere ordine, dichiarazione d’amore perduto:
The desert is any place without you, my dear
And I will love you
I will love you
Il sipario si chiude, la puntina si alza. Il mondo, sotto ai lampioni che gettano una luce gialla, pallida imitazione del sole, è ancora là. Nonostante l’amore non è sempre ricambiato. Nonostante la morte ci accompagni ogni giorno. Le margherite hanno iniziato a fiorire, nei campi, in mezzo agli ulivi: domani mi affaccerò dalla finestra, e ci sarà il solito gatto rosso impegnato a rotolarsi nell’erba. I pettirossi raccoglieranno legnetti indisturbati per fare il nido. I girini, nei fossi che finiscono nel lago la loro breve vita, avranno un accenno in più di zampette anteriori. Domani forse pioverà, e forse la polvere sui vetri verrà lavata via; forse, questa notte, Elvis, da lassù, da Xibalba ove eternamente riposa e ove eternamente fa innamorare, riposerà sereno, conscio di aver compiuto la sua missione.
Forse, questa notte, si colorerà di una tinta più rosa. I nostri sogni saranno ancora amari, ma un po’ di miele li addolcirà. Siamo ancora vivi, sappiamo ancora amare, vogliamo ancora essere amati.
Così tanta vita, così tanta speranza.
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