Un nome d’arte originale, quello di Tutti Fenomeni, stravagante, enigmatico, da cui è già possibile tuttavia tirar fuori qualcosa, come dal mosto torbido si distillano liquori limpidi.
Doverosa premessa: di un artista mi interessa nient’altro che la capacità di sollevare e risolvere problemi; incontrando i miei, nei rari e più fortunati casi, o installandomene degli altri. Se l’arte è una pratica finalizzata all’indagine sulla nostra organizzazione, che ci ri-organizza (alla Noë), allora dell’autore in questione mi interessa il modo in cui indaga (o sembra indagare, poco importa qui l’intenzionalità) il nostro rapporto con i sistemi linguistici che abitiamo e che ci organizzano assoggettandoci, rendendoci soggetti.
Già dal nome d’arte originale, stravagante ed enigmatico, è possibile tuttavia tirar fuori qualcosa, come dal mosto torbido si distillano liquori limpidi. Da una parte, emerge con evidenza il sarcasmo di un’asserzione tanto iperbolica da cadere nel paradosso: sono tutti dei fenomeni; certo, come no. Dall’altra, vi è un significato di fenomeno che possiamo prendere a prestito direttamente dalla fenomenologia, che ci porta dritti verso un’altra interpretazione. Fenomeno è, in questo senso, “ciò che si mostra, il mostrantesi, il palese”, come afferma Heidegger in Essere e Tempo. Tutti Fenomeni può essere allora ritradotto come “tutti che si manifestano, che appaiono”, o meglio “tutti per come si manifestano”, in linea con quanto aggiunge il filosofo poco dopo: “Ora, un ente può mostrarsi da sé in diverse maniere, secondo il modo in cui ad esso si accede”. Si vede come questa esegesi faccia da assioma fondamentale sia per Tutti Fenomeni stesso, che sembra costruire le sue opere sulla base di come gli altri si manifestano per lui (secondo il modo del sistema pop); sia per noi destinatari, che durante la fruizione dei testi siamo instradati al riconoscimento dei vari rimandi intertestuali, dunque rimandi in ogni caso ad altri, i quali ci permettono di interpretare meglio (in maniera più pertinente e competente) la produzione dell’artista. Inoltre, una simile tensione tra la possibilità di un’interpretazione leggera e una più seriosa si configura come sua effettiva cifra stilistica.
“Mentre lo creavo mi colpiva, in particolare, quanto profondamente riuscissi a scendere non dentro la banalità di me stesso, ma dentro il me stesso che è nel linguaggio.”
Queste le parole rilasciate da Tutti Fenomeni in un’intervista a Rolling Stones, relativa al suo ultimo album in studio. Cosa intende precisamente con il sé stesso che è nel linguaggio? Dove ci può condurre, anche a sua insaputa, una simile dichiarazione? Maurice Blanchot sembra avere qualcosa da dire al riguardo: “è soltanto nel momento in cui arrivo a questa strana sostituzione, ‘egli è infelice’ [il est malheureux]” – afferma- “che questa infelicità diventa mia sul modo del linguaggio, che il linguaggio inizia a costituirsi in linguaggio infelice per me”. Per Blanchot, l’assunzione enunciativa, cioè la presa in carico del sistema linguistico da parte del soggetto, non avviene alla prima persona, bensì alla terza, una terza persona che indica l’impersonale, l’evento, l’intersoggettivo (come si legge in Paolucci, 2020). Il “me stesso che è nel linguaggio” sarebbe pertanto un sé già da sempre messo in scena, un delocutivo (ciò di cui si parla), una posizione tra le altre aperte dal sistema linguistico; delineerebbe un sé posizionale, topologico, catturato in una rete sistemica di relazioni tra termini: un nodo di valori e disvalori, in continuità con l’identità dei termini linguistici così come pensati dalla linguistica e dalla semiotica. L’io nel linguaggio è, per il nostro cantante, la posizione che il linguaggio apre per Tutti Fenomeni, personaggio del sistema pop. Ed è infatti vero che, per riuscire a districarsi nell’intricata significazione dell’autore, occorre di volta in volta far riferimento a qualcun altro, attivare un determinato senso, un determinato spazio del contenuto in base alla conoscenza di un rimando enciclopedico, così come si è appena fatto per comprendere il significato del frammento di intervista. Farò un esempio concreto.
Tutti Fenomeni comincia la sua carriera nel periodo probabilmente più florido della trap italiana (2017) come quinto membro del collettivo hip hop Tauroboys, da cui si distacca presto, ma con cui continuerà a collaborare. Se l’ondata trap si contraddistingue da beat cupi, tetri, ripetitivi e da testi violenti e autocelebrativi, la produzione musicale dei Tauro e del primo Tutti Fenomeni si aggancia alla scena trasformandone i connotati essenziali: le basi musicali diventano più leggere, melodiche, lofi, i testi appaiono ironici, nonsense e sdolcinati allo stesso tempo, dal sapore cloud rap. Prendiamo a brano-sineddoche di tutta questa prima parte di carriera uno dei singoli più iconici, Per Quanto Ti Amo (2017). Il brano presenta una classica base trap, caratterizzata da un enorme enfasi sui bassi, estremamente saturi e quasi distorti, insieme a melodie di synth ripetitivi e ipnotici. La melodia in questione procede sempre uguale per tutto il brano, salvo nell’ultima battuta di ogni quarto prima dell’attacco della voce, con dei veri e propri break musicali ritmati dal synth stesso, alzato di volume, quasi a voler preparare e circoscrivere ogni volta la voce del cantante e creando, attraverso questo pattern, un vero e proprio gioco di attese e disattese, aspettative e tensioni. L’effetto di sottolineatura della linea vocale che ne consegue va a contrastare ancor di più con l’assoluta decontestualizzazione, dal canto suo, del significato verbale. E attenzione: il testo appare fuori contesto non perché completamente avulso dal genere di riferimento; non si tratta di una parodia tout court. Ma in quanto mantiene delle caratteristiche interne alla trap stessa, ovvero un flow cantilenato, un lessico volgare, tematiche affini, messe però in ridicolo dall’insensatezza degli accostamenti semantici (“per quanto ti amo cancello Tinder, c’è chi cucina c’è chi pulisce”), dalle paure e dai problemi idiosincratici rispetto alla spavalderia e alla sfrontatezza trap (“ho un problema con la droga e con il turismo”).
Il contrasto tra il simulare il rifacimento a un genere e la contemporanea messa in ridicolo dello stesso attraverso elementi ibridi, che ne ricalcano lo stile fino a farlo ripiegare su sé stesso, fino a portarlo al limite della credibilità (elemento chiave dell’estetica rap) si ritrova anche a livello figurativo, nel videoclip ufficiale. Qui abbiamo un Tutti Fenomeni che sembra emulare le movenze tipiche dei trapper, mettendone in risalto la goffaggine e l’artificiosità. Eccolo che si alterna tra una specie di ballo sgraziato, fumando a petto nudo, con una sciarpa avvolta sulla testa, e il riprendersi con un apparecchio digitale molto grande (possiamo considerarlo il correlato delle armi nei video trap); il riprendersi mentre si è ripresi può fungere da metafora della strategia del brano: una messa in scena degli espedienti tecnici ed enunciativi, che funziona esibendoli ma cambiandoli quel tanto che basta rispetto a come si usa fare nel genere, da marcarne l’esistenza stessa, generando un effetto di artificiosità; marca la non credibilità della credibilità, in altre parole. Si distacca dagli espedienti assumendoli, non potendosene distaccare altrimenti. Questa ambiguità partecipativa si manifesta proprio a livello enunciativo, ovvero a livello dell’atto reale di comunicazione in cui un soggetto invia un messaggio attualizzando delle virtualità linguistiche. Tutti Fenomeni si proietta nel testo assumendo la posizione di un “io” poeta che sembra rivolgersi direttamente all’amata. Tuttavia, non può distaccarsene del tutto, e quell’Io parla al posto di Tutti fenomeni, del produttore, del genere di riferimento, e di tutto ciò che è implicato nell’evento del brano. È anche l’Io delle canzoni d’amore. Vi è dunque una tensione dovuta dallo sconfinamento continuo tra lo spazio del brano e quello della costruzione effettiva dello stesso. Enunciare, in questo quadro, significa modulare punti di vista altrui.
Un brano musicale è tutto un piccolo dramma impersonale (Paolucci, 2020) in cui c’è un posto per l’autore, uno per il producer, uno per il fonico, uno per l’apparato fonografico, uno per lo spettatore, uno per gli altri testi e gli altri autori. D’altronde, non è proprio questa indistricabile modulazione dell’io con l’alterità, questo tenere insieme istanze eterogenee, il tratto specifico dell’identità del cantautore? Non è esso stesso un modulatore di altre voci, di altre istanze, la personificazione non del pop, ma della struttura formale del pop, quale mitopoiesi onnivora che si ripercuote su ciò che assimila ed espelle? Se si prova a riascoltare L’Animale di Battiato dopo aver ascoltato Porco(outro), non si può fare a meno di canticchiarsi nella testa il motivo della citazione, che allunga seppur di poco il verso alla fonte. Meccanismo che funziona con tutti gli altri innumerevoli rimandi intertestuali presenti nella discografia dell’autore. Si potrebbe parlare, a questo punto, di un discorso sul pop in un discorso pop, sia in termini di semplice metalinguaggio, ovvero di un sistema linguistico che prende a carico un altro sistema linguistico; sia in termini di messa in mostra formale della struttura di relazioni stessa del sistema pop all’interno dei brani. Non c’è in questo senso una presa in carico metalinguistica, un linguaggio B che parla del linguaggio A soltanto come suo piano del contenuto. Ma un sistema linguistico B (i brani) che parla del sistema A, di cui fa parte (il pop), assumendone i tratti formali stessi, le relazioni tra le parti. Un romanzo che fa critica letteraria, una poesia ermetica che discorre di ermetismo.
Tutti Fenomeni è proprio questo: “bava e detriti” (alla Eco) dell’immaginario pop che contribuisce a costruire, ed al quale fa da specchio, o meglio, per usare un gioco di parole, da immaginario speculare. Più che interprete, interpretante, istanza di traduzione nel sistema pop.
Dario Antonelli
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