Le macerie del teatro – riflessioni di un’artista qualsiasi sulla situazione attuale

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2020 anno bisestile e funesto, epidemia e pandemia si rincorrono, si incontrano… ma cosa significa essere artisti oggi? Cos’è lo spettacolo “dal vivo”, in particolare il teatro, e cosa rappresenta per la comunità?

Di articoli, notizie, informazioni ne abbiamo ricevute tante, troppe e non è questa la sede per ripeterle. Né è necessario spiegare che alcune misure sono state prese a tutela dei cittadini e vanno, per questo, rispettate. Tra i tanti settori che stanno soffrendo di più oltre al turismo troviamo lo Spettacolo. Si è spenta una luce e con degli occhiali ad infrarossi abbiamo scoperto che il teatro sta morendo o è già morto, insomma ha bisogno di un posto letto in rianimazione.

Fino al 3 aprile: b) sono sospese le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportano affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro di cui all’allegato 1, lettera d);

Sono partite petizioni, richieste di aiuto, si sono sollevate voci a favore dello spettacolo dal vivo e in particolare del teatro, settore bistrattato che arranca ormai da parecchio tempo. Il coro di proteste urla a gran voce: <<anche noi siamo dei lavoratori e, come tali, vogliamo che vengano riconosciuti i nostri diritti>>.

Da artista, da attrice, da persona che svolge questo lavoro tutti i giorni mi domando: “C’era bisogno di un’emergenza così grande per dirigere il focus su una problematica esistente in Italia dagli anni ’30 o giù di lì?”

(Basta andare a ripescare la lettera di Eduardo De Filippo al ministro del Turismo e dello Spettacolo pubblicata su Paese Sera del 1 ottobre 1959).

La mia risposta è no, è come piangere sul latte versato, come sottolineare qualcosa che c’è, che esiste, che cova sotto. Gli attori, i musicisti, i registi, i cantanti, i danzatori etc. etc. non sono visti come lavoratori ma solo come meri intrattenitori, persone che si divertono , che non combinano niente dalla mattina alla sera e che fanno poca fatica ad ottenere dei risultati.

Un tempo gli attori venivano seppelliti fuori dalle mura della città, in terra sconsacrata, non potevano recitare in Quaresima e, per questo, morivano di fame. Di crisi, di difficoltà ce ne sono state tante eppure, il teatro insieme ad altre arti, si è sempre risollevato per un solo motivo: parlava a tutti senza distinzione e aveva una forza politica e sociale.

Nessuno di noi si rende conto della potenza di quest’arte: uno scambio diretto di energia e di sensazioni tra attore e spettatore, un’esperienza unica, irripetibile da far invidia a qualunque viaggio virtuale. In teatro vige la regola dell’hic et nunc, “qui e ora”: quello che vedi, quello che vivi è solo in quel momento e non potrà mai essere replicato. È per te che vivi qualcosa insieme ad altre persone sedute accanto a te, vive e presenti in quel momento.

Uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports e condotto dal gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma guidati da Martina Ardizzi e Vittorio Gallese, nell’ambito del progetto Belligerent Eyes in seno al laboratorio Neuroscience and Humanities, realizzato in collaborazione con Fondazione Prada ha scoperto che durante uno spettacolo dal vivo i cuori degli spettatori, anche se sconosciuti tra di loro, si sincronizzano battendo all’unisono. La sincronizzazione è migliore se l’emozione che viene percepita è della stessa intensità.

Una scoperta bomba che eleva l’esperienza teatrale e che mostra dei risultati scientifici sul benessere che provoca questo tipo di arte se condivisa con altri in quel momento esatto. Come si può risolvere tutto proponendo una diretta in streaming di uno spettacolo? Come si può essere così ingenui da dire che è la stessa cosa se viene utilizzato un mezzo (quello della ripresa video) per veicolare una comunicazione che dovrebbe avvenire direttamente?

Allora qual è la soluzione?, direte voi. Fare rumore.

Non solo nell’era del Coronavirus ma in qualsiasi altro momento, lavorare per portare ad un popolo la bellezza e il pensiero, non accontentarsi di compiacersi o di essere osannati ma cercare di far ridere se si sta piangendo, cercare di far emozionare se l’atmosfera si alleggerisce troppo.

Se non ci si può incontrare al chiuso incontriamoci all’aperto, se non ci si può toccare lasciamoci accarezzare da uno sguardo, ascoltiamo un racconto, una voce, osserviamo un corpo che si muove, troviamo il teatro nella nostra vita di tutti i giorni, invadiamo i luoghi non convenzionali. Senza esagerare, a piccoli gruppi, rispettando le norme igieniche, riflettendo sull’essere, sul messaggio da trasmettere. Combattiamo la paura con la speranza, con l’arte con la cultura. De Filippo scriveva:

<<Io non amo le discussioni e le polemiche, forse perché sono abituato a fare; e non mi nascondo nemmeno che, dopo tutto, non è mai un buon affare interrompere certi sonni beati. Ma mi andavo chiedendo da tempo perché queste cose che ho scritto a Lei – che sebbene copiose potrebbero essere tante di più, e che tutti nel mondo del teatro sanno e ripetono con profonda amarezza – non vengono mai fuori nei convegni, nelle interviste, nelle inchieste, nei referendum.

Non ho trovato niente altro che questa risposta: la paura. Una paura che forse io solo non avevo e non ho ragione di sentire. Ecco perché ho creduto che fosse mio dovere rompere il cerchio di silenzio e di omertà – reso più impenetrabile dalla confusione di idee e dei suggerimenti interessati – che impedisce a chi di ragione di orientarsi e di agire.>>

Eduardo De Filippo – Lettera al ministro del Turismo e dello Spettacolo – 1 ottobre 1959

 Facciamo, agiamo, combattiamo, siamo in guerra. Se crolla il teatro crolla una comunità allora sarà molto peggio di un’epidemia, di un coprifuoco, di un divieto, sarà la fine del libero pensare e verranno tempi bui.

Elena Fioretti
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