I remake americani rovinano spesso la nostra concezione del materiale originale. The Ring, originale del 1998 giapponese, fu trasformato in un kitsch horror da teen-ager dal remake del 2002 made in USA.
Assenti le torte alla ciliegia e le mascelle squadrate, in The Ring (Ringu) del 1998, per la regia di Hideo Nakata, va in scena un delicato intreccio parapsicologico fra vivi e morti.
Il famoso incipit – le due teenager che guardano una misteriosa cassetta – è divenuto poi un cliché dell’horror: sia per l’abbigliamento delle giovani che per la densità dell’aria che si respira, ottimamente realizzata dalla regia immobile di Nakata. Protagonisti di The Ring, che, più che essere un horror, è un dramma psicologico, sono Reiko Asakawa (Nanako Matsushima, che non è invecchiata di un anno) e il suo ex marito Ryuji Takayama (Hiroyuki Sanada), rispettivamente una giornalista ed un medico, ora insegnante universitario, con un certo “sesto senso”. Perché nei tardi anni ’90, complice anche il successo di Akira (leggi qui), il tema degli Esper era estremamente comune, in Giappone.
La vicenda parte da Reiko, che, indagando sulla misteriosa morte della figlia della sorella, scopre da alcuni teenager che pare che la nipote, e dei suoi amici, una settimana prima, avessero visionato una strana videocassetta. Le foto dei cadaveri, che l’autopsia rileva essere morti all’improvviso, senza apparente ragione, sono stranamente mosse, quasi disturbate da un campo elettrico. Reiko rintraccia il nastro in un videonoleggio e vede (qui se volete vederlo anche voi), fra sfrigolii metallici, ed una giovane donna che ha l’aspetto di uno yurei, un demone acquatico giapponese. Il figlioletto Yoichi, purtroppo, riesce a visionare la videocassetta, dice, spinto dal fantasma della cuginetta. Reiko, terrorizzata all’idea che il bambino possa cadere vittima della maledizione, allora, contatta il suo ex marito Ryuji, ed entrambi si recano nella prefettura di Oshima, apparente origine del nastro, per riportare alla luce – in fondo ad un pozzo, tema che si ritrova ovunque nell’arte e letteratura giapponese contemporanea – una storia fatta di violenza, soprannaturale, sofferenza e infine vendetta.
Come ho già detto, a fine anni ’90, come anche nel romanzo originale di The Ring (scritto da Koji Suzuki), Esper e psionici erano un tema portante della fantascienza e dell’horror nipponico, e la nostra saga non è un’eccezione. Tralasciando le sezioni da goosebumps – Sadako che esce dallo schermo televisivo, dopo essere riemersa dal pozzo, capelli neri fradici a coprirne il volto – The Ring narra una vicenda straziante di una ragazza troppo dotata e sfruttata da uno scienziato senza scrupoli, esattamente come in Akira di Katsuhiro Otomo, che fa della vendetta il suo scopo, anche dopo la morte del corpo fisico.
Indubbiamente, la forza di The Ring, fra gli amanti del cinema d’autore, fu la forza dei suoi personaggi
La bella e oscura Reiko è, per prima, seppur figura materna, inquietante nella sua potenza emotiva, mentre il suo contraltare maschile Ryuji riesce, a fatica, a creare una minuscola breccia nel suo cuore grazie all’intensità dell’esperienza vissuta. Il focus di The Ring, però, trattandosi sostanzialmente di un dramma familiare intergenerazionale, è per l’appunto sull’aspetto della maternità: Reiko è accogliente, come fu la madre di Sadako (Shizuku), è calda, dolce, affettuosa, una leonessa aggressiva che smuove l’intero Giappone se sospetta che una maledizione possa aver colpito suo figlio – fregandosene dell’iper razionalismo del Sol Levante, fidandosi del suo istinto materno e recuperando vecchie leggende di un’epoca ormai dimenticata. Sadako, dal suo canto, è solamente una bambina disperata, alla ricerca di un briciolo d’affetto che in vita non ricevette. In questo senso, The Ring è una storia sì giapponese, ma colma d’amore e umanità, sebbene narrate attraverso il velo del macabro e del violento: una concezione d’amore, distante dal codice d’onore e dai vari mock-up dello stesso rappresentati nei prodotti di massa del paese che invadono l’Occidente, che è universale e quasi esclusivamente riservato all’universo femminile. In senso sociologico, dunque, The Ring è un film divisivo, ginocentrico, che dipinge il mascolino come dannoso, tossico, la cui catarsi è possibile solo attraverso una profonda trasformazione – quei secchi d’acqua lurida del pozzo che Ryuji raccoglie, e che Reiko svuota – che deve passare esclusivamente per il lato femminile del mondo, perché è solamente esso che può insegnare alle bestie feroci a rabbonirsi. Perché negli abbracci disperati del marito all’ex moglie, al pensiero che il figlioletto potesse morire entro una settimana, non c’è sincera preoccupazione: è solo un riflesso di quello della madre. E sciacquare via la patina sporca di apatia e afasia emotiva è l’unico modo per scoprire il proprio vero io.
La maledizione della videocassetta – il doverla continuamente copiare per sopravvivere – è, in questo senso, grande allegoria della maledizione che affligge la Specie Umana: doversi riprodurre, continuamente, per non estinguersi, anche se va contro la propria volontà, anche se si è inadatti, anche se essere genitori, per taluni, è un’esperienza orribile. Il panico morale che trasuda dalla nostra gioiosa società classista e capitalista, in cui non c’è soluzione di continuità fra lavoro, vita, riproduzione, e, infine, morte.
D’altro canto, però, sebbene The Ring sia un film che, all’apparenza, mostra una certa classe ed eleganza, non si può dire che sia ben invecchiato.
Sebbene abbia rivoluzionato l’horror anche occidentale, basandosi, appunto, sull’atmosfera densa, pesante, che avviluppa il fruitore in spire tentacolari di demoni acquatici, The Ring è un film dal passo lento, quasi immobile, che sviluppa una vicenda semplicissima in ben due ore e mezza, dotato di una regia sì, efficace nel trasmettere la stantia violenza sottesa, ma immobile e sonnolenta. Che rende impossibile un rewatch.
Ecco, va anche detto, però, che la nostra visione della tragedia del fantasma di Sadako e del suo malefico doppelganger (leggi Us, la summa di tutto il genere) è sporcata da slasher, ultraviolenza anche di conterranei come Junji Ito e dell’ero-guro di Shintaro Kago, il che potrebbe, involontariamente, togliere lirismo e potenza alla storia narrata: occorre, dunque, una profonda riflessione sull’eredità di The Ring nell’arte contemporanea, che invito ogni lettore, cinefilo o neofito, a svolgere.
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