Sulla Mia Pelle è il film italiano del 2018. Narra gli ultimi, tragici, giorni di vita di Stefano Cucchi, protagonista di un fatto di cronaca nera risalente al 2009, e, del quale, ancora non si è smesso né si smetterà a breve di parlare. E’ di oggi la notizia della condanna per omicidio, a dodici anni, dei responsabili.
Perché? Perché, purtroppo, la querelle giudiziaria, in cui sono invischiate le forze dell’ordine, ancora non è giunta alla sua fine.
Sulla Mia Pelle, per la regia e sceneggiatura di Alessio Cremonini, è distribuito da Netflix e musicato dai Mokadelic, presentato al “Orizzonti” della 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove è stato il film d’apertura. Cremonini, al suo esordio come regista sul grande schermo con un lungometraggio, si destreggia in un lavoro che ha, in sé, una materia informe, difforme, ma composta di mille sfumature di nero.
La pellicola si apre con l’ideale fine: Stefano, di spalle, riverso nel letto dell’ospedale carcerario, e la scoperta da parte dell’infermiere di turno della mancanza di polso. Il resto di Sulla Mia Pelle è una serie di tappe dell’ideale Passione di un ragazzo di trentuno anni di Tor Pignattara. I carabinieri tutti, figure totalmente prive, in questo film di denuncia, di qualunque accezione positiva, sono legionari romani reincarnati, coperti da divise blu: anonimi, nelle loro azioni, e la cui esistenza nel tempo cinematografico è resa concreta solamente dai segni lasciati da quelle botte sulla pelle, appunto, di Stefano Cucchi. Non ci sono lance di Longino, non ci sono corone di spine: c’è solo la prigionia di un letto di ospedale; c’è la croce che è omertà solida, di tutte quelle figurine che gravitano indifferenti attorno a Stefano.
La figura di Stefano è, ovviamente, centrale. Dico ciò non per ripetere ciò che è evidente, ma perché, nel suo rigoroso assolutismo, è una sorta di passione di un povero cristo. Abbandonato, però, dallo Stato: già, perché quelle guardie, quegli infermieri, quella donna, quella dottoressa, che se ne lava le mani come fece Ponzio Pilato, quei non consensi a procedere firmati con mano tremante dalla paura, hanno tutti il sapore di essere nient’altro che emanazioni, che eoni, di un Dio invisibile, di uno Stato. In una pellicola durissima, come lo è Sulla mia Pelle, tutti perdono.
La regia di Alessio Cremonini è imparziale. La sua telecamera si muove come una creatura della notte, invisibile, che spia le azioni di Stefano, gira attorno a lui, ne osserva con assoluto rigore le tremende ferite ed il deperimento fisico. I colori, caldi soltanto nell’abitazione della famiglia Cucchi, arredata di legno e le pareti coperte da carta da parati giallo acceso, virano su toni gelidi, tipici di tante pellicole horror. Va ricordato, però, che qui siamo nel regno del realmente accaduto; e quelle pareti tarlate, quelle lettighe bianco sporco, quei lividi viola, i frammenti d’osso che si staccano, gli occhi color piombo di Alessandro Borghi, sono tutti fenomeni reali. La narrazione è frammentata, ellisso è il momento del pestaggio, il che fa però apparire il film, ad un occhio poco attento alle sottigliezze della settima arte, una sorta di documentario sul deperimento fisico e mentale di un essere umano: una fenomenologia del grigiore dell’accidia, mista all’ignavia, e del tanto caro, tanto italiano, “girarsi dall’altra parte”. Forse è proprio per questo aspetto naturalistico che un film come Sulla Mia Pelle risulta essere comunque sopportabile: nonostante le splendide interpretazioni di Alessandro Borghi e di Jasmine Trinca, che impersona la sorella Ilaria Cucchi, manca del mordente empatico di altri film di denuncia, quale, ad esempio, 87 Ore: Gli Ultimi Giorni di Francesco Mastrogiovanni. Max Tortora, ossia il padre Giovanni, e Milva Marigliano, la madre Rita, recitano come se fosse un dovere, come se marciassero a tempo di giava: come se il tragico finale fosse ineluttabile. Fra gli anonimi legionari del film, l’unico di cui è possibile ricordare il volto è il maresciallo Roberto Mandolini, colpevole dell’insabbiamento, interpretato da Orlando Cinque.
La figura di Stefano Cucchi, trentasette chili per 165 cm, impersonata da Alessandro Borghi, giganteggia, però, su tutti. Giganteggia con i suoi occhi pesti, con le sue, poche, dolorose, parole, sussurrate a mezza bocca, e le urla a cui nessuno sembra credere; giganteggia in mezzo ai carabinieri nell’ascensore di casa sua, nelle caserme, nei suoi silenzi, nelle sue costole con un filo di pelle sopra. Un film più che minimalista, più che essenziale, come Sulla Mia Pelle, non avrebbe potuto richiedere altra colonna sonora se non una post rock, e la scelta più adeguata è ricaduta sui Mokadelic.
La band è andata ad occupare la nicchia lasciata vuota dai Goblin di Andrea Simoncioni: attiva asindal 2000, ha fatto proprio il movimento post-rock emozionale scaturito dagli Explosions in the Sky e dai Sigur Ròs, sono collaboratori di Niccolò Fabi e all’attivo hanno molte colonne sonore. Prima fra tutte, il bellissimo Come Dio Comanda di Gabriele Salvatores, nonché tutti i lavori del regista Stefano Sollima e il film Pulce non c’è, che vinse il premio della giuria al Festival del cinema di Roma del 2012. Della vicenda di Stefano Cucchi, Mannarino ne aveva già parlato col brano Scendi giù, vincendo anche il premio Amnesty.
Sulla Mia Pelle dei Mokadelic: tracklist
1.Sulla mia pelle
2.Niente fa male.
3.Rx
4.Calmo e zitto
5.La prima notte
6.Qui non c’è posto
7.Le scale
8.Viaggio al tribunale
9.Immobile
10.Notizia morte
11.La fine sulla pelle
La soundtrack è ben centellinata per tutto il film, e mai in momenti significativi: ciò perché è proprio la presenza della musica a rendere significativo un momento, non il suo avvenimento, quale fosse un momento di riflessione nella mente stanca e stravolta di Stefano. Il sound non è mai invadente: il primo movimento della colonna sonora è un lentissimo notturno, l’omonimo Sulla Mia Pelle, che suona nella scena iniziale, in cui Stefano, ormai, non respira più. È ovviamente il tema portante dell’intero album.
Niente fa male si sente dopo l’arresto di Stefano. Brano tipicamente soundscape, che rallenta in note stirate di archi gli accordi dell’incipit, come grida mai lanciate. Straziante melodia è in Rx, musica che si ode durante la prima lastra alla schiena di Stefano, in cui si viene a scoprire delle due vertebre rotte: stesso arpeggio ripetuto all’infinito su accordi diversi, è un brano che prende molto dalle opere di John Murphy e degli ultimi Godspeed you!Black Emperor, altra band post rock attiva nel campo delle colonne sonore.
La discesa verso il buio è iniziata, ed echi crepuscolari, apparizioni di confuse figure sul Golgota si odono con la prima notte di Stefano al commissariato sull’Appia, Calmo e Zitto. Zitto. Non urlare.
So’ caduto dalle scale.
Ma ‘ste scale non ti hanno fatto niente al naso?
Eh, so scale strane.
Sulla stessa falsariga, ma arricchendosi di inserti di ottoni, prosegue la Prima Notte, brano fra i migliori dell’intero album: il tema è lo stesso di Sulla Mia Pelle, ma su uno soundscape di archi campionati si iscrivono un piano ed una spazzola per batteria che suonano come sferzate, come frustate. Lente, infinite, impossibili da evitare, seguono il ritmo del battito di un cuore umano; il pulsare ritmico dei nocicettori, i recettori del dolore, si aggiunge come altri effetti elettronici, distorti, scariche elettriche confuse, in una tipica accelerazione post-rock che chiude il brano. Qui non c’è posto descrive il trasferimento di Stefano nell’ospedale in cui poi morirà: poche note, lanciate come persone in una pianura grigia, piatta, infinita, e archi di sottofondo, negli stessi accordi del tema principale, come il vento che si incunea fra anonime rocce distanti; Sulle Scale è sua ovvia continuazione, una silenziosa narrazione al pianoforte di quel “sono caduto dalle scale”, della visita del medico del tribunale cui Stefano non confida il tremendo segreto: oscure note vanno ad interrompere la cadenzata ripetizione dello stesso arpeggio.
Viaggio al Tribunale, che descrive, appunto, il trasferimento nel luogo in cui per Stefano si deciderà la custodia cautelare, è un ritmato brano notturno al piano, contaminatissimo da synth ma in cui sono presenti spunti di chitarre elettriche.
Devi stare immobile, hai due vertebre rotte. Nessuno, però, che ti aiuti a sistemarle. Immobile, piano espressivo, di tasti a volte sfiorati a volte percossi, nei momenti più bui, si concede anche un violoncello; siamo ormai nel silenzio dell’ospedale carcerario, dove le poche voci tentano solo di lavarsi la coscienza, quanto basta per girarsi dall’altra parte e dimenticare ciò che si ha visto. Quell’accidia, quell’omertà, l’aver dimenticato la propria umanità da parte di tutti gli anonimi colpevoli di questo delitto – sono stati tutti questi elementi a portare alla morte Stefano Cucchi: Notizia Morte è colonna sonora del pianto accorato di Jasmine Trinca, sorella di Stefano, e dei genitori, un’unica nota sostenuta per tutto il brano, attorno a cui si affanna, accorato, un pianoforte.
Siamo giunti all’epilogo. Annunciato fin dall’inizio, ma non per questo meno doloroso: La Fine sulla Pelle accompagna i titoli di coda. Tragica ballata al pianoforte, ricca di cambi di ritmo e d’accordo, riprende il motivo iniziale e ve ne fonde un altro, forse più sereno. Più sereno perché la sofferenza di Stefano è finita. Il suo ultimo respiro, in Sulla Mia Pelle, non è mostrato, perché lui è girato di spalle; La Fine sulla Pelle descrive un lento approssimarsi a quel letto, da parte dell’entità nascosta, notturna, invisibile, che impersona la telecamera per tutto il film, e dona a quel corpo straziato un lirismo innato, consegnando questa tragedia all’eternità. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato, seppur con l’ennesimo sacrificio di Stato, quel “Dio a lieto fine cui non bisogna credere mai” : una bestia, in realtà, con dita affilate, da cui però nessuno ha avuto il coraggio di salvare Stefano. Alla fine del brano, è presente il vero dialogo col giudice: si spegne la finzione, va ricordato che trattiamo di realtà.
Sulla Mia Pelle è l’ennesima prova meravigliosa dei Mokadelic, venutesi a scontrare con la realtà, non con la guerriglia di Gomorra; poca, ma eccezionale, musica, che va ad arricchire un film duro, necessario, vitale.
“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”
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