I Dreamed of Electric Sheep / Ho Sognato Pecore Elettriche è il nuovo album in studio della Premiata Forneria Marconi, ancora per Inside Out, dopo il precedente Emotional Tatoos. E’ uscito il 22 ottobre 2021.
Gli androidi sognano pecore elettriche?
L’arcinoto titolo del racconto di Philip Dick che ispirò Blade Runner, capolavoro di Ridley Scott, è già di per sé fonte d’ispirazione. Racchiude tutta la filosofia alla base dell’opera, ossia una complessa riflessione sull’autorealizzazione, la scoperta di sé, l’autocoscienza. Dov’è il confine fra uomo e macchina? Dove risiede la coscienza? È un luogo fisico, spirituale, immateriale?
Ci troviamo, di nuovo, di fronte ad un Covid-album, con I Dreamed of Electric Sheep, della Premiata Forneria Marconi, composto principalmente durante la pandemia, ogni membro del gruppo chiuso nel proprio bozzolo casalingo, nel proprio mini-studio di registrazione. Attualmente, la PFM consta di Franz di Cioccio – immortale, ve lo preannuncio: probabilmente ha scavato nel fondo dell’abisso e trovato la pozione dell’eterna giovinezza –, da Patrick Djivas al basso, da Alessandro Scaglione alle tastiere, Marco Sfogli alle chitarre, e infine dal violino di Lucio Fabbri, spesso anche tastierista aggiuntivo.
L’enorme cambio di sound, della PFM moderna, è stato dovuto all’ingresso di Scaglione. Scaglione, che è un musicista eccezionale: possiede visione a lungo termine, coniugata con un gusto per la semplice melodia che rende gradevolissimo ogni brano. Sebbene di formazione classica, sembra essere attentissimo sia al passato del prog che al suo presente, e soprattutto al suo futuro: al mondo nordico, all’estero. I tecnicismi, poi, di Sfogli, non hanno mai fatto rimpiangere – almeno a me, eh, mi attengo all’eventuale linciaggio – Mussida: si fa ampio uso di palm muting, di fraseggio quasi post-rock dai toni bues, mentre, all’occorrenza, sa divenire un ottimo heavy metaller grazie ad una scelta, quasi sempre perfetta, dei pitch degli amplificatori.
Ecco. Sappiamo chi è la Premiata Forneria Marconi. Quasi sempre una certificazione d’eccellenza. Emotional Tattoos alla sottoscritta era piaciuto moltissimo: è un album che riascolto spesso con piacere, uno di quei pregevoli sottofondi alla guida, piccole gemme in cui è possibile scoprire rifiniture di produzione mai notate prima, grazie anche agli eccellenti testi curati da di Cioccio in persona.
I Dreamed of Electric Sheep è un doppio album, che come il precedente è pubblicato in due versioni, italiano e inglese. Per semplicità, ci occuperemo solo della versione inglese. La intro Worlds Beyonds è una mini-suite baroccheggiante su cui si innesta l’ottimo lavoro di Sfogli, la cui chitarra letteralmente narra cantando di mondi paralleli – nella visione della PFM, un tema un po’ troppo abusato, come anche dal notoriamente non felice ultimo lavoro di Steven Wilson –, ossia quelli nei quali viviamo, e, nella fattispecie, abbiamo vissuto con particolare intensità durante la pandemia: Internet. E i social network. Ancora di salvataggio per alcuni, naufragio della Moby Prince per altri.
Il suono di Worlds Beyonds si avvicina pericolosamente a quello degli ultimi Dream Theater (leggi qui la recensione di A View from the top of the World), ma vi si discosta rapidamente, per la calma riflessiva che prospera, quasi senziente, in tutto I Dreamed of Electric Sheep. Di Cioccio, nella successiva Adrenaline Oasis, sussurra, ed è una delle ballad piu’ belle forse composte dalla nuova PFM: l’intensità emotiva di cui avvolge l’ascoltatore deriva da una produzione ed un missaggio di pregio assoluto; ci si sente immersi nel fraseggio di piano blues, nel rimbombare distante del basso, mentre i passaggi melodici della linea vocale, ripresi da synth e chitarra, riportano ai classici della PFM e del prog italiano tutto. La successiva Let Go è un’altra ballad, ma fortemente atmosferica, ed è una coccola sonora per orecchie stanche: un po’ disneyana, evoca di mondi dolcissimi in cui salarymen si strappano la cravatta e vanno a correre nel bosco incantato, biologi lanciano per aria i reagenti, e operatori ecologici – con tutta l’ipocrisia che tale definizione porta con sé – mollano gli attrezzi per andare a passeggiare senza impegno per le strade. Un invito a lasciar andare tutto, sfuggire finalmente al burnout: ed è un messaggio potentissimo per chi, come tanti, durante la pandemia si è lasciato consumare come una candela, dal lavoro da casa, ore e ore davanti al computer, fino al totale esaurimento. Mentre il mondo là fuori c’era, ma non poteva essere toccato. Sorretta da synth e dal mormorio sentitissimo di Di Cioccio (“Just let go, recharge your weary soul”), accarezza tranquillamente l’ascoltatore.
Quello di allentare il nodo alla cravatta, lanciare in un angolo la ventiquattrore, era un solo un bel sogno, per il dolente salaryman di I Dreamed of Electric Sheep: nella sci-fi City Life, synth futuristici e un totalizzante lavoro di basso e chitarra, si torna, fra accordi maggiori ed il positivista – quanto sarcastico – suono anni ’80, ad altri lidi già esplorati in Emotional Tatoos – il destino è ineluttabile, per quel salaryman.
Che se solo avesse le ali (If I Had Wings) volerebbe lontanissimo: filtri vocali per di Cioccio, synth genialmente curati, in frequenze capaci di creare, nell’orecchio dell’ascoltatore, landscape sonori in cui l’immaginazione può volare libera, liberandosi per l’appunto, metaforicamente, negli intermezzi pianistici che riprendono quelli di Let Go, in un rincorrersi metamusicale e narrativo.
Sfortunatamente, la banalotta Electric Sheep, sebbene brano centrale dell’album, poco aggiunge al suo valore artistico se non qualche giro di basso da manuale e qualche apertura in maggiore purtroppo non rafforzata dall’impegno vocale di Di Cioccio che sembra abbastanza sottotono in I Dreamed of Electric Sheep – l’età avanza per tutti, oserei dire. Stesso si può dire di Daily Heroes, che è, però, poppeggiante, ode a quel salaryman che non ha mollato un colpo. O, meglio, a tutti coloro che hanno continuato a fare il proprio lavoro durante la pandemia. La composizione di base di Daily Heroes, sia chiaro, è eccellente, soprattutto per, finalmente, l’assolo di violino di Fabbri, di cui sentivamo la mancanza da un po’.
Lo stile atmosferico e narrativo, sebbene energico, sviluppato in Let go e Adrenaline Oasis torna in Kindred Souls – anime affini – e si tinge della gentilezza di una cornamusa me del flauto di Ian Anderson dei Jethro Tull, da tempo immemore collaboratore e amico della Premiata Forneria Marconi. Un vero ecumenismo in musica, che mescola anche tipici arpeggi arabeggianti, minimoog, e la tipica eleganza compositiva della band – quei cambi di ritmo improvvisi ed espressivi, mai fini a se stessi.
Transhumance (che, in italiano, è resa come “transumanza”, ossia l’atto dello spostare le greggi verso pascoli piu’ verdi) è la suite finale di I Dreamed of Electric Sheep: un tripudio di synth e hammond, genialmente mescolato con le campane delle pecore, tipico suono campestre italico – di cui, poi, l’hammond si occuperà di giocarne col ritmo, reinventandolo e componendovi sopra un canone prog che sarà esperienziale sentir suonato dal vivo.
Sebbene il tema di base sia notevolmente abusato, ed era rimasto ben poco da dire e snocciolare riguardo l’alienazione umana causata dalla tecnologia e dalla pandemia stessa, la PFM è riuscita a creare, con I Dreamed of Electric Sheep, un lavoro fortemente poetico, umano, ed elegantissimo: le ispirazioni dickiane sono ridotte – grazie a Dio – all’osso, mentre molto c’è di farina del proprio sacco nella scelta lessicale e dei topòi trattati nei singoli brani, che risultano essere tutti parte di un unicum narrativo ricchissimo di rimandi interni e che suona, anche ad orecchi meno affinati, un lavoro pregevolissimo dal punto di vista tecnico. Un merito particolare va alla chitarra di Sfogli (che, sebbene la guest appearance di Steve Hackett, è fondamentale) e alle scelte di sound di Scaglione, che si dimostra essere un designer eccezionale e che sa come stupire un ascoltatore sia picky e spoiled, che uno casuale, della PFM. Un album che si mantiene sui livelli del precedente Emotional Tatoos, e ne è, per certi versi, superiore, poiché personalmente ritengo che Let Go, Adrenaline Oasis e Kindred Souls siano fra i brani piu’ belli mai composti dalla PFM negli ultimi dieci anni, per ispirazione, perfezione tecnica e semplice capacità di intrattenere e divertire l’ascoltatore, in una continua caccia al tesoro dell’ennesimo elemento compositivo che era sfuggito. Mi sento di fare un solo appunto, alla cara PFM: rafforzare il comparto vocale. Un innesto fresco anche là, oltre ai backing vocals, farebbe rasentare l’eccellenza dell’empireo del prog, di nuovo.
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