A View from the Top of the World, Dream Theater: recensione

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Il ritorno dei Dream Theater si è concretizzato in ottobre 2021 per Inside Out nella forma di A View From the Top of the World, anticipato dal singolo The Alien.

Una serie di curiose coincidenze mi hanno portato a riconoscere immediatamente il luogo da cui l’artista che ha creato la cover di A View From the Top of the World, nuovo album dei Dream Theater. Un masso sospeso in uno strapiombo, un equilibrio precario. Tale masso si trova in Norvegia, il Kjerag. È una hike pericolosissima: si può accedervi solamente se si possiede sufficiente esperienza.

Il ritorno dei Dream Theater è stato un evento, forse, inaspettato. Eppure, in qualche modo, rassicurante. Come le melanzane alla parmigiana della domenica. Nonostante la pandemia, nonostante le nostre vite siano state sconvolte, i Dream Theater, col loro teatro dei sogni, ancora esistono. Ancora sono una cosa, una cosa unica – e non nel senso di essere, in sé, un evento irripetibile – ma nel senso di costituire un corpo unico, unito, un’entità singola. 

Non che abbiano mai smesso di esserlo, sia ben chiaro. I Dream Theater, assieme a pochi altri eletti – oserei infilarci in mezzo Rammstein, Iron Maiden, Metallica, Slayer, Nightwish, Cannibal Corpse e forse Epica – fanno parte di quell’insieme di band strettamente metal che non ha mai avuto problemi monetari, annoso problema di chi voglia, sebbene dotato di grandiosa visione e di geniale talento, infilarsi in tale mondo, o di cali di notorietà: controversi, per i più vari motivi, non sempre legati alla propria musica, e, soprattutto, icone sociali, divinità inarrivabili cui si può sognare e di cui, ciascuna uscita, fa immancabilmente discutere.

A View From the Top of the World arriva dopo il mesto Distance over Time, album che dimostrava sì un ritorno dei Dream Theater alle capacità compositive perdute, ma anche una cronica mancanza di idee che si trascinava mentre il mondo del prog ribolliva di novità.

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Ora, come piccola premessa, posso annunciarvi che A View From the Top of the World non proviene di certo da un ipotetico corrispettivo prog della Factory di Warhol in quanto a originalità, ma neppure allieta i pomeriggi dei vecchietti amici degli Yes nella loro ultima uscita. Diciamo che si colloca nel mezzo, ma il mezzo è ricco di sfumature e la caratura dell’attuale formazione dei Dream Theater si mantiene impressionante: John Petrucci rimane il Mario Draghi dei chitarristi, pare sia capace di far spillare idromele dal suo strumento, mentre Jordan Rudess – ricordiamolo, laureato a Julliard! – è da sempre in grado di creare intere orchestre,  Mike Mangini ormai non strepita più per uguagliare Portnoy, mentre il buon Myung, al basso, è un’icona di devozione alla musica. LaBrie, nonostante i cali vocali e gli infortuni, rimane un punto di riferimento.

Eppure, ormai, il punto di riferimento sono gli Haken, non i Dream Theater. Gli inglesi hanno spodestato gli americani, quando Affinity e The Astonishing venivano al mondo insieme, nel 2016: il primo, un capolavoro con pochi eguali; il secondo paragonabile, ma privo del fascino, a geroglifici incomprensibili e sporchi di sabbia – vecchiume.

D’accordo, la premessa è terminata. La messa sacra di A View From The Top of the World viene inaugurata da The Alien, aggressivo, introdotto da un bellissimo assolo di chitarra – la chitarra di Petrucci, la specifica distorsione, quel suono caldo e rotondo, le stesse frequenze che hanno conquistato il mondo – narrativo e descrittivo.

In un atto sinestetico, per meglio descrivere le sonorità dei tempi d’oro dei Dream Theater, potremmo dire che esse sono composte di alternanze – e delle loro sfumature – di paludi e di nubi. Un’intricata diversità per entrambi: uno specchio d’acqua azzurro che riflette le stelle, oppure una torbida pozzanghera popolata da bestie immonde. Nubi delicate, come fiocchi di cotone e zucchero filato, che si muovono lente nel cielo azzurro, oppure furiosi nembi temporaleschi.

The Alien è in grado di recuperare dunque le sonorità dei capolavori dei Dream Theater, e, sebbene il fattore riccardoneria (prego, leggere la nonciclopedia per comprendere meglio di cosa sto parlando) sia sempre presente e sotteso, le piccole aggiunte tecniche e la produzione rendono eccellente il brano: il bridge di percussioni poco prima, nel finale, del controcanto – stavolta di nuvole che si schiudono sul sole che sorge – di Petrucci al primo assolo aggiunge, ad esempio, fluidità alla sezione del brano. Che termina quasi fosse un inno.  

A View From the Top of the World è un lavoro solido, unitario, corale, come lo è la band che l’ha composto. Quasi senza accorgersene, ci si trova su Answering the Call, e anche il concept dell’album si schiude: e se fossimo noi, gli alieni, per qualcun altro? Noi, che possediamo, almeno in teoria, la tecnologia per creare un nuovo mondo ed esplorarne infiniti?

Mentre, benintesi, rimaniamo coi piedi ben saldi sulla superficie, alta gravità, di questo pianeta, con le sue bellezze e brutture – le sue nubi e le sue paludi.

Answering the Call purtroppo manca del mordente di The Alien e riesce a sfoggiare eccessiva riccardoneria nonostante il fraseggio di batteria ricordi fortissimamente i Rush (che, di certo, fra le band prog, non rientravano fra quelle che facevano dell’ipertecnica il loro manifesto): groove, sorretta principalmente dal genio di Rudess che crea intermezzi e soli di tastiera pregevolissimi. La più catchy ed accessibile Invisible Monster, probabilmente prossimo singolo visto l’andazzo, possiede il valore riflessivo ed inquietante – nuvole temporalesche – tratta di temi che abbiamo imparato a conoscere bene nell’ultimo anno e mezzo: l’angoscia, l’orrore di ciò che c’è fuori e allo stesso per ciò che abbiamo dentro (il sentirsi sotterrati all’interno della propria mente), quel mostro che alberga in ognuno di noi. Sta al singolo accettarlo o meno.

Invisible Monster è un caso in cui la capacità compositiva dei Dream Theater fa scuola: ansia ed angoscia, il cuore che batte all’impazzata, i pensieri che si rincorrono incoerenti, lo strepitante immobilismo della condizione umana, è perfettamente reso con i mid-tempo, con i cambi di ritmo, coi sussurri dolenti di LaBrie, e ci ricorda alcuni degli eventi meglio riusciti di Falling Into Infinity. Sullo stesso tenore rimane la splendida Sleeping Giant, che molti non ameranno proprio per la sua semplicità: un bellissimo brano a là Images and Words, in cui il lavoro di Petrucci è ridotto all’osso – niente shredding, niente palm muting, niente distorsioni e il grosso viene fatto da Jordan, Mangini e LaBrie alla voce – che, sicuramente, si trova più a suo agio su brani ballad-like che su cavalcate pseudo heavy. Tante piccole gioie sono nascoste in Sleeping Giant, come cambi d’accordo elegantemente scelti, funzionali alla natura descrittiva del brano, ed il mini-intermezzo quasi avant-garde di piano da saloon e hammond di Jordan.

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Siamo nella stratosfera, la luna sembra più vicina a noi della terra, e le nubi sono rarefatte, mentre quelle sotto di noi sembrano una soffice piscina bianca. Transcending Time: un brano rinfrescante, che, per rimanere sul piano sinestetico, è di un profondo azzurro rilucente di stelle argentee – quasi catartico. La grande ispirazione, qui, ancora, sono i Rush, e si sente: la capacità narrativa ed emozionante di quest’ultimi ha fatto scuola ai primi, giovinastri Dream Theater, che, invecchiando, tornano alle origini. La chitarra di Petrucci è nuovamente ridotta all’osso, per un brano che è molto calmo ed è la quasi-ballad di A View from The Top of the World.  Gli accordi sono maggiori, il brano è in levare, lo stesso tema si ripete all’infinito con pochissime declinazioni, e si sfocia quasi nell’operetta gioiosa; nulla è sinistro, nulla è oscuro, non c’è dualità. Tutto fluisce, tranquillo, come le nuvole sotto di noi.

Ma la gioia è effimera, si sa: e in Awaken the Master Petrucci torna al suo posto – e si riprende con prepotenza il trono – con una chitarra a otto corde (ma quante dita ha?), in cui il lavoro svolto è letteralmente gigantesco. Un suono oscuro, che ti fagocita con fauci paludose, un tiro alla fune con gli eterei intermezzi di Mangini e Rudess, quest’ultimo in grado di regalare celestiali porzioni pianistiche, mentre Mangini gestisce, anche sfruttando la doppia cassa, l’intera ritmica del brano. Che segue, in realtà, il pattern di Transcending Time, privilegiando la melodia e la narrazione all’esercizio stilistico.

Siamo alla fine di A View From the Top of the World, e la sua title track vale l’album intero. La sua enormità ricorda un po’ un boss dei Souls-like, un leviatano, una creatura gargantuesca che ha il suo regno nei cieli e che si nasconde ai comuni umani che non li abitano. La tartaruga che porta sulla schiena il mondo intero, Atlante che sorregge la Terra. Ventuno minuti, due in meno di The Count of Tuscany, circa come Metropolis. Il sentore epico è però molto più forte in A View From the Top of the World che in Black Clouds, Silver Linings, e si configura come effettivamente un’operetta: tre minuti di intro, di costruzione della scenografia, e di introduzioni dei temi musicali ricorrenti, ed infine il cantato di LaBrie che si innesta su una ritmica geniale – in controtempo! – di hammond lievemente distorto e lavorato. A movimentare il brano ci sono, appunto, gli avvicendamenti fra porzioni operistiche e groove di Petrucci, nuvole celestiali e morbose paludi, mentre il basso di Myung finalmente ricopre un ruolo da protagonista.

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Forse, una pecca, o sicuramente un segno di stacco col passato, finora, è stato il passaggio in secondo piano della voce di LaBrie, che suonava come un altro strumento, rispetto agli altri. In A View From the Top of the World, al contrario, sembra sia l’intero circo a suonare per lui. A circa metà brano, dopo un lungo intermezzo fusion, che ricorda le genialate divertenti dei The Aristocrats, si ritorna sui binari della serietà con addirittura una chitarra acustica – sebbene sporcata di goccioline acquoree – e i tipici intermezzi neoclassici di archi cui i Dream Theater ci hanno abituato da tempo. Cui, poi, in un ciclo infinito, si susseguono terremoti, tuoni sconvolgenti, fatti di accelerazioni improvvise e di intensità ritmica di Mangini. Il sentore epico di soundtrack per una battaglia nei cieli fra un leviatano informe ed una flotta gaslamp fantasy, un’esperienza da ascoltare e impossibile da descrivere. Vi basti sapere che l’equilibrio raggiunto fra il protagonismo di Petrucci e il fattore operistico è perfetto: non c’è sbilanciamento verso nessuna delle due componenti.

La musica dei Dream Theater è luci e ombre, è palude ed è nuvola; è buio e luce. Ma è elegante. Anche nei suoi momenti più bassi, ha sempre mantenuto un alone di pregio, di gioielleria Tiffany, che altre band non sono state capaci di mantenere, scadendo spesso o nel ristoro per anziani, o nel divertissment fine a se stesso, o nella triste pantomima dei propri successi. I Dream Theater sono stati in grado di tornare, in A View from the Top of the World, con un album coerente e ben strutturato – che sia ben suonato viene da sé, dato che abbiamo di fronte alcuni dei migliori esecutori moderni – in cui sono stati sì capaci di divertirsi, ma di mantenere l’accessibilità dei loro brani, e di riscoprirsi capaci di avere interessanti idee compositive. Il teatro dei sogni non è ancora stato raso al suolo.

Giulia Della Pelle
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1 commento su “A View from the Top of the World, Dream Theater: recensione”

  1. Solo un appunto: gli Haken non hanno spodestato nessuno! ok che ci sia voglia assoluta di fare fuori i nomi blasonati, ma i bravissimi Haken non hanno gli stessi anni di carriera dei DT, ne tantomeno possono vantare dei capolavori assoluti. “Affinity” è un grandissimo disco, forse il loro migliore, ma se facessimo un raffronto con i capolavori assoluti dei DT perderebbe nettamente 4 -1. Senza contare che gli ultimi 2 album degli Haken sono già una netta involuzione rispetto a loro stessi… anche se poi tecnicamente dei passaggi interessanti li trovi sempre negli album. A tutto questo aggiungiamo il fatto che nelle loro canzoni ci sono dei chiarissimi passaggi alla DT… anzi dove sembrano parti delle canzoni dei DT ed il gioco è fatto: i DT sono una cosa che già è nel mito della musica, gli Haken bravissimi ma sono ancora lontani dall’essere un marchio impresso nella storia.

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