È stato Il Colibrì ad aprire le danze alla Festa del Cinema di Roma. Un film che porta la firma di Francesca Archibugi e ci racconta di un uomo immobile, tra i sentimentalismi di una vita che gli scivola addosso. Intense le interpretazioni di Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak.
Basato sull’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega nel 2020, Francesca Archibugi ha trasposto sul grande schermo Il Colibrì, una storia lunga più di mezzo secolo, dove le vite di una famiglia tradizionalmente borghese si intrecciano con le evoluzioni e la crescita personale di ogni membro: gioie, dolori, nevrosi sono solo alcuni aspetti che coinvolgono tre generazioni. È in questa tempesta emotiva che è essenziale, se non vitale, rimanere saldi, anche davanti a momenti e situazioni devastanti.
Una narrazione che palleggia costantemente tra passato e presente.
Il Colibrì si apre in una bellissima villa sul mare dove facciamo conoscenza della famiglia Carrara. C’è il padre (Sergio Albelli) e la madre (Laura Morante) che si stanno preparando per passare una serata fuori con i tre figli ventenni: Marco (Francesco Centorame) e Giacomo (Niccolò Profeti), entrambi innamorati di Luisa (Elisa Fossati), una ragazza francese; e poi c’e la figlia Irene (Fotinì Peluso) che, mentre tutti sono intenti a vivere le loro vite, sta combattendo contro i suoi disturbi mentali. Quella notte cambierà per sempre il loro destino.
Con un salto al presente, incontriamo il professor Carradori (Nanni Moretti), lo psicanalista che ha in cura Marina (Kasia Smutniak), la moglie di Marco (Pierfrancesco Favino), con la quale vive insieme alla figlia Adele (Benedetta Porcaroli). La donna è instabile ed ha seri problemi mentali, tanto che lo psicologo teme per la vita di Carrera. L’uomo si reca dove lavora Marco e gli pone molteplici domande su lui e Luisa (Bérénice Bejo), fino a metterlo in guardia dalla moglie. Un confronto che poco alla volta ci restituirà la verità di una storia ingarbugliata che si svolgerà in epoche diverse tra Parigi, Roma e la Toscana, tra tumulti di esistenze scombussolate dagli eventi.
Il film ci racconta di come è impossibile sfuggire al dolore e agli imprevisti della vita attraverso dei salti temporali. Di come una famiglia disfunzionale possa lasciare degli strascichi permanenti per le generazioni a venire.
Il colibrì è Marco: minuto e fermo, anzi, immobile. La sua è una quiete in un mondo in continua evoluzione, dove tutti sono in movimento, tranne lui. Sembra che sia ai ferri corti con la vita stessa, che la rigettasse. Ma il mondo non si ferma. Gioie e dolori, vita e morte accadono. Fin da subito ci rendiamo conto di come i genitori di Marco abbiamo delle personalità forti, ma che la loro relazione sia così instabile che è impossibile da insabbiare.
Ed i tre figli crescono in questo contesto. Marco – così come i due fratelli – si porta dietro una comprensione frammentata e altalenante delle relazioni sentimentali. Nonostante ami una donna da sempre, ne sposa un’altra perché certo che è lei la donna del suo destino, ma non comprende e non vede come la vita di chi ama sta andando in frantumi.
La sceneggiatura de Il Colibrì – firmata da regista Francesca Archibugi e da Laura Paolucci e Francesco Piccolo – è densa di avvenimenti che si svolgono con costanti flashback e flash forward, ritraendo una borghesia non edulcorata. Una storia familiare di lutti, bugie, incomprensioni, tradimenti e rimpianti, con qualche gioia qua e là, dove la malattia mentale è il perno centrale. I primi piani in sequenza enfatizzano ogni stato d’animo dei personaggi, dove i corpi e gli sguardi la fanno da padrone in un finale profondamente emotivo e delicato.
L’opera ha una fotografia e scenografia raffinata: hotel di lusso e grandi appartamenti che ci sottolineano quanto la vita dei protagonisti sia benestante. Il tutto contornato dalle luci scintillanti di una Parigi di classe e da una attraente costa toscana. La colonna sonora con brani come I’ll Be Seeing You e London Calling ci aiutano a ‘saltare’ da un’epoca all’altra.
Il Colibrì è una carezza che devasta. Un melodramma sentimentale carico di dolore in cui il lavoro corale degli attori è riuscito a rendere attraente ed elegante una storia familiare caotica e un uomo che ha preferito una vita ordinaria e disincanta pregna di relazioni complesse. Una bella storia che avrebbe meritato quel pizzico di magia che si è visto solo sul finale.
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