In quest’era della musica in cui si tende a fare tour di gruppo, la mega comitiva del power metal è giunta a Lubiana, capitale della Slovenia, al Kino Siska. Frozen Crown, Blackbriar, Ad Infinitum, e, infine, la portata principale: la band transoceanica dei Kamelot.
Un tour lunghissimo, quello di The Awakening, in cui la band non è stata a riposo per più di due mesi consecutivi da fine 2022, sebbene l’album sia effettivamente uscito nel 2023, incluso un intenso giro delle Americhe e delle principali città europee – il mastermind e CEO della band, l’americano Thomas Youngblood, sa indubbiamente far fruttare la sua creatura.
E anche stavolta è stato messo in piedi uno spettacolo degno dei – francamente pochi – euro del prezzo del biglietto: una selezione di band dalle ottime qualità compositive e strumentali/vocali, e in grado di intrattenere anche i meno avvezzi alle sonorità power metal.
La serata inizia puntualissima, alle 18:30, con italiani Frozen Crown, un interessante ensemble italiano dalle sonorità Rhapsody of Fire (che sia Turilli o Fabio Lione non importa – Gloria, Gloria Perpetua!), e primissimi Dragonforce, ma female-fronted, attualmente sotto contratto con la Napalm records. Eppure, almeno live, l’insieme di canzoni scelte risulta piuttosto piatto e monotono; il balancing dei suoni della venue non è dei migliori, e la bellissima voce di Giada Etro viene completamente persa nel caos di chitarre anche su Steel and Gold, uno dei loro brani più noti. Singolo da War Hearts, album appena uscito – fresco fresco – ma già noto al pubblico. Un buon entreè per, però, uno dei migliori piatti del menu: gli olandesi Blackbriar.
Anche loro, puntualissimi, alle 19:15: Zora Cock si presenta velata di nero, e intona delicatissima Mortal Remains. L’intera ora a loro disposizione è sfruttata in modo eccezionale: sebbene il sestetto, fondato da Cock e Renè Boxem (alle tastiere e principale compositore), sia ufficialmente sulle scene dal 2021 con la pubblicazione del bellissimo The Cause of Shipwreck, l’intenso touring, l’eccellente preparazione musicale teorica, la cura per la narrazione, e, in generale, l’incredibile entusiasmo mostrato ne hanno fatto un piccolo, grande classico del panorama power. Brani come I’d Rather Burn, Selkie, Cicada, Crimson Faces e Spirit of Forgetfulness si susseguono, in religioso silenzio da parte del pubblico durante i gorgheggi solitari di Cock – la cui voce calda ed espressiva, contraltile, ridona grazia ad una serata in cui, finora, sembrava si stesse facendo il compitino. Molti i brani dal nuovo A Dark Euphony, di cui avevamo avuto l’occasione di parlare proprio con Cock e Boxem (qui link all’intervista). La chiusura è sapientemente affidata ad Until Eternity, per introdurre gli – pun intended – Ad Infinitum, della svizzera Melissa Bonny, in attività dal 2018. La Bonny è una creatura che vive, respira e si nutre di power metal, viste anche le infinite collaborazioni all’attivo – Feuerschwanz (una band metal satirico che vi consiglio di ascoltare per passare una bella giornata), Alice Cooper, i conterranei Eluvetie, Wintersun. E da tale si muove sul palco, assieme agli ottimi Adrian Thessenvitz alle chitarre e Niklas Muller al basso. Di nuovo, però, l’importante aspetto melodico dei brani degli Ad Infinitum è soverchiato dal tremendo balancing di batteria e chitarra, tanto da appiattire totalmente il dinamismo di brani ballabili come Upside Down e far apparire i rari growl di Bonny come una ventata d’ossigeno e movimento. Anche loro freschi di nuovo album, Abyss, pubblicato per Napalm l’11 ottobre. Che, però, mi sia concesso dirlo, non suona meglio live di quanto suonasse in studio. Anche qui, come per i Frozen Crown, al di là dell’eccezionale capacità di tenere il palco di Bonny, il fattore sorpresa è piuttosto scarso.
Devo ammettere di aver versato qualche lacrimuccia nel 2011, quando Roy Khan, vittima di un esaurimento nervoso, annunciò di star lasciando i Kamelot. Ammetto di aver avuto un poster in camera del norvegese impegnato a cantare probabilmente Karma, e che il primo album fisico che io abbia mai comprato era Ghost Opera, penultimo lavoro dei Kamelot con Khan alla voce. Colpevolmente, ammetto di aver giurato, all’epoca, su qualche forum, che la prima ninnananna di un mio futuro bambino sarebbe stata Anthem. Ammetto di aver poi versato un’altra lacrimuccia, tarda, più secca e più conscia del male presente nel mondo, quando Tommy Karevik annunciò di aver abbandonato i Seventh Wonder per seguire Youngblood a tempo pieno: chi canterà più delle avventure degli Everones e della piccola Tiara? Chi ci narrerà più, a cuore aperto, la lenta morte di un uomo come in Mercy Falls? Della salvezza dell’umanità in The Testament? Vorrei suggerire agli svedesi che c’è un certo ragazzo estremamente talentuoso in Norvegia, ma chissà se acceterebbe…
Tommy Karevik è una figura imponente, sul palco preparato ad hoc per il mega-progetto di Youngblood, ed il setup per la batteria di Alex Landenburg è un interessante pezzo di arredamento. Oliver Palotai – marito di Simone Simons, per chi si interessa di gossip – si stabilisce dietro alle tastiere. Veil of Elysium parte e, di nuovo, la voce di Karevik si perde nell’arrangiamento. Fa perfino cenno a Thomas riguardo i problemi, ma lo show prosegue con Rule the World, classico da Ghost Opera – delizia per le mie orecchie. Ben si sposa con un brano da The Awakening, Opus of the Night, e con Insomnia, sempre dalla Tommy-era, da Haven. È poi finalmente tempo per When the Lights are Down, e mi stupisce come tanti giovani Gen Z conoscano il brano: un ponte fra le generazioni. La splendida ballad Vespertine dà spazio alle doti vocali di Karevik e ad un po’ di sincera commozione. La grandiosa scenografia per New Babylon, singolo da The Awakening, include poi anche la partecipazione di Melissa Bonny, che torna sul palco per un duetto ben rodato.
Roy Khan ha recentemente dichiarato di aver deciso di abbandonare i Kamelot durante una performance di Karma, uno dei brani più noti della sua era: riascoltarla cantata da un’altra persona fa uno strano effetto, ma Karevik riesce a colpire nel segno e a reggere degnamente la pesante corona; altro discorso per Angel of the Afterlife (Sacrimony), brano fra i migliori di Silverthorn: perfettamente calibrato sul nuovo, ormai vecchio, cantante, nota a tutti all’interno del Kino Siska – anche qui, il ruolo originariamente di Elize Ryd degli Amaranthe e di Alissa White-Gluz (Arch Enemy) va a Melissa Bonny, che compie un lavoro eccelso. La dolcissima ballad Willow, da The Awakening, rappresenta poi una necessaria pausa – una ninnananna dal valore quasi sacro. Di nuovo, è difficile distinguere le parole di The Human Stain, brano che segue Willow, ma che recitano, splendide, e che Karevik interpreta con pathos:
Hear the ticking of a clock, the sound of life itself
No one really wants to die to save the world
Tell me that you’re torn asunder from how we fail to learn
And tell me as the Earth goes under
Where’s your anger now?
Dopo un gradevolissimo assolo di batteria per far riposare cantante e altri musicisti, si riparte con il classico March of Mephisto – la Bonny demoniaca – e, sul finale, Forever. Giochini di voce e pubblico e presentazioni di rito della band, con la promessa di tornare a Febbraio – e Youngblood che sbaglia, due, tre, quattro volte a pronunciare sia Slovenija che Ljubljana, ma glielo si perdona dopo uno show tanto sentito. Nell’encore vengono proposti due classici: il singolo di successo di The Awakening, One More Flag in the Ground – una dichiarazione di coraggio verso la vita e per la salute mentale – e Liar Liar, da Haven, con Bonny al posto di White-Gluz. Altro brano che unisce l’intera venue, sebbene per un’ultima volta.
Il concerto delle quattro band, dopo tre ore e mezza, è finito: tempo di uscire nell’umidità della capitale slovena.
Lo spettacolo messo in piedi dai Kamelot è stato, indubbiamente, incredibile: dagli ancora acerbi Frozen Crown alla strabordante personalità e talento di Melissa Bonny, i cui Ad Infinitum, purtroppo, soffrono ancora di una certa ripetitività compositiva; passando per il raggiante futuro dei Blackbriar, musicisti eccezionali e capaci di creare uno stile personalissimo e ben riconoscibile. I Kamelot risultano essere fuori classe senza tempo, ed è forse, finalmente, con questo tour, che Karevik si sta togliendo di dosso l’ingombrante eredità Khaniana vista anche la qualità compositiva di The Awakening, a cui ha partecipato attivamente. La rottura col passato è stata assolutamente importante e necessaria per il nuovo corso dei Kamelot, ma live, purtroppo, la mancanza di brani come The Haunting e Ghost Opera – Welcome all, to the curtain call – hanno ridotto il grip sul pubblico. Si replica oggi a Trezzo sull’Adda vicino Milano.
Ci rivediamo a Febbraio, ragazzi.
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