È uno degli argomenti che tiene banco tra i cinefili in questi giorni: non parliamo dell’onnipresente Joker, ma di un altro criminale mascherato, Diabolik.
Proprio in questo periodo, infatti, sono iniziate le riprese del nuovo film dedicato al ladro in calzamaglia; la pellicola è diretta dai Manetti Bros e il cast di soliti noti ne prospetta un sicuro successo. Sarà Luca Marinelli a impersonare il criminale creato dalle sorelle Giussani, mentre Miriam Leone si trasformerà in Eva Kant. Spazio all’immancabile Valerio Mastandrea nei panni del mitico ispettore Ginko.
Eppure un film su Diabolik è già stato girato e, stroncato a suo tempo in Italia, è ancora oggi un radicato cult in tutto il mondo. Ma per raccontarne la storia bisogna tornare al 1968.
C’è stato un tempo ormai lontano in cui il cinema di genere italiano sapeva osare e far sognare. Un tempo in cui non aveva paura di sfidare le produzioni americane scegliendo un taglio internazionale. Era il tempo di grandi produttori come Dino De Laurentiis, dei registi passati alla storia – Fellini, De Sica, Visconti – ma anche di oscuri mestieranti destinati al culto degli appassionati, come Mario Bava.
“Sono venuti quelli dei Cahiers du cinéma (nota rivista francese n.d.r.), e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all’inizio del film Sei donne per l’assassino, dove c’è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film…”
In queste poche righe sta tutta la filosofia di Mario Bava.
Un regista dal talento visionario, ma non solo: fotografo, creatore di effetti speciali e all’occorrenza facchino. Un grande che seppe tenere sempre un profilo basso. Anche quando nel 1968 ebbe la sua grande occasione: dirigere finalmente una pellicola ad alto budget. Diabolik, per l’appunto.
Erano tempi frenetici per le produzioni; attori e registi erano avvezzi a girare anche due o tre film per volta.
Il cinema contava ancora qualcosa nella società e i budget, proporzionalmente all’epoca, erano più alti. Questo faceva sì che i lavori attorno a un film fossero febbrili e che spesso le carte in tavola si sparigliassero completamente. Prendiamo Diabolik: il regista designato era Tonino Cervi, che fu licenziato dopo una settimana; il protagonista doveva essere Jean Sorel – per chi non sa chi fosse, una sorta di epigono di Alain Delon – e Eva Kant addirittura Catherine Deneuve. Sorel seguì la sorte di Cervi, che lo aveva voluto nel cast, mentre Deneuve fu sostituita perché rifiutò le scene di nudo.
Così prese forma il cast che diverrà iconico: John Phillip Law è Diabolik, Marisa Mell Eva Kant , il grande Michel Piccoli dà vita a Ginko e il mitico Adolfo Celi al malavitoso Ralph Valmont. Dietro la macchina da presa, ovviamente, Mario Bava.
Il budget di 200 milioni è per l’epoca alto, non faraonico ma da produzione di alto profilo. Bava è talmente abituato al risparmio e a creare effetti speciali caserecci ma efficaci, che riesce nell’impresa di non spenderlo tutto.
Il taglio del film è smaccatamente pop, con un’estetica e un’attenzione ai colori che rende le scene quadri viventi di Andy Wharol o Roy Liechtenstein.
La trama unisce tre episodi della saga a fumetti e risulta invero piuttosto raffazzonata e densa di buchi di sceneggiatura. Lo stile registico è rutilante: uso spregiudicato dello zoom – classico di Bava – forte contrasto dei colori, inquadrature ricercate e oblique, sequenze psichedeliche. Le ambientazioni strizzano l’occhio alla fantascienza dei film di James Bond: armi improbabili e nascondigli futuribili. Ma il fantasma che maggiormente aleggia su tutto è quello di Batman. E parliamo del Batman del fumetto e della sua unica versione fedele sugli schermi, ovvero la mitica serie del 1966 con Adam West.
Se la trama è quel che è, il resto proietta Diabolik dritto nella categoria cult. Il tono della pellicola non è mai serioso o pretenzioso; è un film tratto da un fumetto e non ha mai la pretesa di essere cinema d’impegno. L’interpretazione di Law è monolitica, Diabolik è poco più di un bellissimo manichino, privo di qualsiasi sfumatura. Marisa Mell, che diventerà un’icona del giallo all’italiana, è bellissima e statuaria ma non brilla per furore interpretativo. Adolfo Celi è un villain da antologia, circondato da lusso e donne oggetto, iracondo boss della mala. Ma su tutti svetta un già grandissimo, ironico e perfettamente in parte Michel Piccoli.
Come si diceva, il film è stroncato dalla critica italiana: Tullio Kezich, per esempio, lo definì “Uno dei film più stupidi degli anni sessanta”.
Ben diverso il discorso all’estero. La Francia lo adotta fin da subito per il linguaggio pop e moderno e per la blanda critica verso il capitalismo, mentre nel resto del mondo la rivalutazione sarà più lenta ma inarrestabile.
La prestigiosa rivista francese Cahiers du cinéma apprezzò molto il film, scrivendo: “Gli effetti anamorfici, gli sbandamenti di ordine percettivo in ogni inquadratura, la costante discontinuità spazio temporale, concorrono alla costruzione di un universo dalla bellezza prorompente, improbabile e autoritaria”
Negli anni la pellicola, un po’ come per tutte le creazioni di Bava, viene fatta oggetto di innumerevoli omaggi e tributi.
Il film CQ di Roman Coppola lo cita esplicitamente, mentre il giapponese Takao Nakano ne utilizza una canzone in Sexual Parasite: Killer Pussy.
Un discorso a parte lo merita il rapporto di Diabolik col mondo della musica, a partire dalla splendida colonna sonora di Ennio Morricone. Proprio Deep Down, il pezzo portante, sarà interpretato da Mike Patton nel suo progetto Mondo Cane e ispirerà una delle sue tante band, i Fantomas. Inoltre una gustosa parodia si può ammirare nel video di Body Movin dei Beastie Boys.
Più articolato l’omaggio dei Tiromancino nel video della loro Amore Impossibile. Daniel McVicar – star di Beautiful – è un improbabile e imbolsito Diabolik, mentre Claudia Gerini, allora compagna di Federico Zampaglione – impersona Eva Kant. A chiudere il cerchio, la regia del videoclip è di Lamberto Bava, figlio di cotanto padre.
Aspettiamo quindi con genuina curiosità il Diabolik dei Manetti Bros. I registi sono sinceri ammiratori dell’estetica vintage e il cast – Marinelli su tutti – è di buon livello. Ma siamo sicuri che, nel bene e nel male, l’epoca dell’originale Diabolik e di maestri come Mario Bava, rimarrà irripetibile.
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