Il ventiduesimo film di Pedro Almodóvar è talmente ben diretto da lasciare senza fiato. Dolor y Gloria viaggia a ritmi perfetti, racconta il meraviglioso mondo estetico del regista senza però mai essere esplicitamente autobiografico
In pochi, pochissimi possono vantare un’abilità di scrittura e direzione come Pedro Almodóvar. In più, se ci si mette che, dopo anni di ottimi film, lo ritroviamo in splendida forma in Dolor y Gloria, in cui ha affinato e alleggerito il suo stile sempre riconoscibile, gli viene riconosciuta la palma come uno dei migliori registi che questa terra abbia mai visto. Nei suoi dialoghi ci si perde e nei suoi personaggi ci si immedesima nonostante non si abbia nulla in comune con i protagonisti che racconta. E proprio queste sensazioni che lascia Dolor y Gloria, un autentico capolavoro della settima arte.
Il ritorno di Pedro Almodóvar dietro la macchina da presa è vulnerabile, introspettivo, familiare, necessariamente doloroso e struggente. La pellicola è un esame nostalgico ed astuto della vita del cineasta, è il tempo che ti presenta il conto, la maturità, i limiti del corpo che invecchia e le fragilità dell’anima, sono i ricordi e quella voglia di andar via per sempre. Eppure va avanti facendo quello che sa fare meglio: il cinema.
Ed è così che Almodóvar, per l’ennesima volta, ci porta dentro le immagini di una storia magnetica e intima, ma questa volta lo fa diversamente, questa volta riesce inaspettatamente ad andare oltre. La cornice della narrazione è sempre la sua amata Spagna che ci appare vera, intricata, con mille sfaccettature da scoprire, e meravigliosamente rossa, colore principale dell’intera pellicola ed usato in modo superbo.
Dolor y Gloria è un film intenso e sincero, di reale spessore artistico.
Si percepisce che Almodóvar ha voglia di rivelare e rivelarsi, lui abilmente conosce molto bene ciò che sta portando in scena e ciò che trasmette su ogni piano e in ogni sequenza. È un film senza discussione, dove non ci sono punti di vista, ma una narrazione di un pezzo di vita di un regista di grande successo, Salvador Mallo (Antonio Banderas) il cui lavoro più importante è “Sabor” che ha ora 32 anni.
Mallo è abbastanza ricco da condurre una vita confortevole in una lussuosa casa circondata da opere d’arte, eppure il peso degli anni si sta facendo sentire sul suo corpo. Come se non bastasse, la sua anima è lacerata, un’anima che ha conosciuto la depressione, l’ansia e gli attacchi di panico.
Insomma, troviamo Salvador in un momento di stagnazione personale e professionale che cerca di riconnettersi al proprio passato per andare avanti. Affronta i suoi errori, i suoi vecchi amori, la sua infanzia, sua madre e i suoi colleghi. E questo riesce a farlo grazie all’idea del cinema locale di proiettare “Sabor” e invitare Mallo per una discussione sul film.
Grazie a questa proposta, Salvador si ricongiunge con il protagonista della sua opera Alberto Crespo (Asier Etxeandia) che lo inizia all’eroina, nella quale il regista trova sollievo ai suoi mali. La narrazione ci regala spesso dei flashback in cui ci mostrano un Salvador bambino che abita in una grotta con sua madre Jacinta (Penelope Cruz) nella pittoresca città di Valencia.
Dolor y Gloria è un film sulla riconciliazione tra passato e presente, una riappacificazione con sé stessi. La figura materna è un dispositivo di ancoraggio centrale, sia alla giovinezza che all’età adulta – la madre, e chi conosce i film di Almodóvar lo sa, è una caratteristica costante nella filmografia del regista. Il protagonista ritorna e fa ammenda con il passato usando la sua tremenda forza creativa.
Non posso dire esattamente come lo fa, altrimenti rovinerei il finale del film svelando troppo. Ma quello che posso dire è che c’è una svolta inaspettata nella sequenza finale che conferisce uno status completamente nuovo al significato dell’intera storia, lasciandoci un sapore dolce e un’intensa gioia di vivere.
Non mi stanco di ripetere che Antonio Banderas ha dato vita al miglior lavoro della sua carriera.
Per la sua sottigliezza, per essere lontano dalla sovra performance che lo caratterizza, per ricreare un personaggio pieno di sfumature e che fornisce più informazioni di quanto ci lasci credere. Una nomination ai premi Oscar più che meritata. Ma non solo lui, tutti gli attori sono meravigliosi. A parte una splendida Penelope Cruz perfetta nel suo ruolo, devo fare una menzione speciale a Julieta Serrano (Jacinta da anziana) e per Leonardo Sbaraglia (Federico), quell’amante del passato che si è perso lungo la strada. Le conversazioni tra Salvador e questi due personaggi sono sintomatiche, sono verità, sono pura vita.
La lode deve anche andare alla colonna sonora composta dal candidato all’Oscar Alberto Iglesias, che ha la capacità di combinare abilmente il buio con il melodramma. A rendere tutto più seducente è la voce di Mina sulle note di Come Sinfonia: “Sento gli angeli che cantano per noi, io vorrei, io vorrei che questo sogno fosse realtà, realtà d’un sogno, amor”, versione del 1961 che la Signora della canzone italiana incise dopo il Sanremo di quell’anno. La voce della Tigre di Cremona ancora una volta è stata scelta dal regista spagnolo.
Anche se Pedro Almodóvar continua a ripetere che il film non è apertamente autobiografico, non posso fare a meno di notare che il protagonista veste i suoi panni e si pettina come lui, e una volta saputo che i mobili e l’arredamento della casa sono i suoi, i parallelismi sono d’obbligo. Ma sinceramente non lo voglio nemmeno sapere se Almodóvar abbia portato o meno in scena la sua storia, se abbia affidato all’interpretazione di Banderas la sua catarsi personale.
Perché molto probabilmente sta proprio qui la magia di Dolor y Gloria: nel dubbio, nella bellezza delle immagini domestiche, della fotografia, della musica e della performance degli attori, la bellezza sta in tutti questi elementi rifiniti del film che si incastrano in maniera esemplare per creare qualcosa di nuovo, di magnifico, di mai visto.
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1 commento su “Dolor y Gloria, l’opera toccante di Pedro Almodóvar con Banderas mirabile”
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