Francesca Comencini firma il suo film più personale, Il tempo che ci vuole, presentato in anteprima all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, in cui la regista romana ripercorre la sua vita regalandoci uno dei rapporti padre-figlia più intensi che si siano mai visti sul grande schermo.
Merito anche del monumentale Fabrizio Gifuni che torna a recitare in un film ambientato durante gli anni di piombo dopo aver impersonato Aldo Moro in Esterno Notte, interpretazione che gli è valsa il David di Donatello come miglior attore protagonista nel film diretto da Marco Bellocchio, che è uno dei produttori della pellicola. Accanto a lui una straordinaria Romana Maggiora Vergano che, dopo aver commosso il pubblico con la sua recente performance in C’è ancora domani, è riuscita magnificamente a portare a termine il delicato compito di interpretare l’alter ego della regista.
Chi ha paura del fallimento non ha così tanta voglia di farcela
Anni ’70. Luigi Comencini è attualmente impegnato con le riprese di Pinocchio, il celebre sceneggiato Rai con Nino Manfredi e Gina Lollobrigida. Ciononostante non trascura la figlia, anzi la accompagna a scuola, la aiuta ad affrontare le proprie paure e quando si trova in difficoltà non esita un istante ad offrirle il proprio aiuto. Lei è solo una bambina eppure lui le parla con serietà, rispetto e compostezza, come se parlasse con un’adulta. Il loro è un rapporto solido, costruito sulla fiducia e sulla sincerità, che però viene messo a dura prova quando Francesca cresce e diventa una giovane donna, in balia di un futuro incerto.
D’altronde come biasimarla. Sono anni difficili, caratterizzati da lotte politiche e rivoluzioni sociali. In un periodo in cui tutti vogliono essere artisti e rivoluzionari, Francesca stenta a trovare la sua strada. Sente di non riuscire ad eccellere in niente, di non avere alcuna vocazione e così, nel tentativo di colmare quel senso di vuoto che la tormenta, si rifugia nell’eroina.
Luigi, che nel frattempo si sta ammalando di Parkinson, si rende conto che la figlia ormai non è più una bambina e inizia a nutrire dei sospetti sulla sua sincerità ma non è disposto a fare finta di niente. Quando viene a patti con la triste realtà non è tanto l’uso delle droghe che lo ferisce quanto il tradimento e le menzogne. Francesca è ossessionata dall’idea del fallimento, ma quando trova finalmente il coraggio di ammetterlo scoprire che il padre condivide le sue stesse insicurezze la rincuora. «Sempre tentato, sempre fallito. Tentato di nuovo, fallito meglio» è l’insegnamento di Comencini alla figlia.
Proprio quando Francesca pensa di aver toccato il fondo, è in quel momento che Luigi le promette di non lasciarla mai più sola e di restare al suo fianco «il tempo che ci vuole» per aiutarla a guarire. Una volta a Parigi, complice la passione condivisa per il cinema, Francesca riesce a ritrovare se stessa, la sua vera strada e il rapporto con il padre. Consapevole che la malattia avanza, Francesca capisce che il padre non riesce più a stare al suo passo e che ora spetta a lei restituirgli le attenzioni che lui le ha riservato finora.
Straordinariamente ordinario
Ne Il tempo che ci vuole Francesca Comencini ci restituisce un ritratto inedito di suo padre Luigi, autore, tra gli altri, di capolavori dal valore inestimabile come Pane, amore e fantasia (1953), Lo scopone scientifico (1972) e Le avventure di Pinocchio (1972), permettendo alle nuove generazioni di conoscere – e apprezzare – un regista che ha fatto la storia del cinema contemporaneo.
Prima di essere uno dei registi italiani più amati con una passione sconfinata per il cinema – a tal punto da proteggere le pellicole di alcuni film muti che altrimenti sarebbero andate perdute per sempre – Comencini era un uomo buono, gentile, educato, consapevole che il rispetto per la vita viene sempre prima di tutto.
È proprio tra un ciak e l’altro di Pinocchio che Comencini rimprovera il suo assistente alla regia dopo che quest’ultimo ha umiliato una signora che si è affacciata a una delle finestre che danno sulla strada in cui è stato allestito il set cinematografico, rischiando di compromettere la buona riuscita della scena. Ma a Comencini questo non importa: sono loro gli ospiti e in quanto tali devono rispettare il luogo e le persone che ci vivono e ricorda a tutti che «Prima la vita, poi il cinema!».
Il tempo che ci vuole non è soltanto un commovente film autobiografico ma è molto di più. È una lettera d’amore: al padre, a cui Francesca deve tutto, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, e alla magia che solo la settima arte è capace di regalare.
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